UN WELFARE STATE IN CRISI

Previdenza, assistenza e sanità sono alle prese con squilibri, vincoli di bilancio e dinamiche demografiche che non consentono di garantire alla popolazione tutte le prestazioni necessarie e di assicurare la sostenibilità a lungo termine del sistema pubblico

UN WELFARE STATE IN CRISI
In pensione a 71 anni. È questa, secondo il recente rapporto Pensions at a glance dell’Ocse, la prospettiva che si apre di fronte a chi si appresta in questo momento a entrare nel mercato del lavoro in Italia. Più tardi di noi, con una soglia anagrafica di pensionamento stimata in ben 74 anni di età, soltanto la Danimarca.
La ricerca precisa che la previsione è dettata unicamente dal meccanismo previdenziale che in Italia, come del resto avviene anche in altri otto paesi dell’area Ocse, vincola l’età di pensionamento all’aspettativa di vita. Chissà però che un simile slittamento non possa almeno contribuire a migliorare la sostenibilità di un assetto previdenziale che, per il momento, pare garantita soltanto nel breve termine. Secondo l’ultima edizione de Il bilancio del sistema previdenziale italiano realizzato da Itinerari Previdenziali, il saldo pensionistico resterà infatti in equilibrio per i prossimi 10-15 anni, indicativamente fino al 2040. Poi si vedrà. Molto dipenderà dalla capacità del sistema di far fronte a una transizione demografica senza precedenti e a un debito pubblico che potrebbe presto sfondare la soglia dei 3.000 miliardi di euro. Fra i diversi interventi proposti dal centro studi e ricerche presieduto da Alberto Brambilla, c’è proprio l’innalzamento di un requisito anagrafico che, seppur fissato a 67 anni di età a livello legislativo, si riduce nei fatti a meno di 63 anni a seguito delle molteplici misure di anticipo pensionistico che sono state introdotte e realizzate negli ultimi anni.

UN ASSISTENZIALISMO FUORI CONTROLLO

E pensare che il sistema previdenziale, preso di per sé, potrebbe essere pure sostenibile a livello finanziario. Il saldo complessivo fra entrate e uscite pensionistiche nel 2022, secondo il rapporto di Itinerari Previdenziali, ha evidenziato un deficit di oltre 22 miliardi di euro. Uno sguardo più approfondito mostra tuttavia una realtà diversa: depurato infatti dalle imposte sulle pensioni e dalle spese per prestazioni assistenziali, il bilancio previdenziale si chiude con un inaspettato avanzo di circa 50 miliardi di euro. Abbastanza per poter garantire, almeno dal punto di vista finanziario, la sostenibilità a medio e lungo termine del nostro sistema pensionistico.
L’assetto previdenziale mostra dunque un certo equilibrio. Peccato che lo stesso non si possa dire per un più generale sistema di welfare che appare quasi troppo generoso per poter essere sostenibile. A pesare, come rimarca ormai da anni Itinerari Previdenziali, è soprattutto una spesa assistenziale che, per usare le parole del rapporto, è ormai “fuori controllo”. Le uscite per prestazioni assistenziali a carico della fiscalità generale sono ammontate nel 2022 a 157 miliardi di euro: nel 2008, giusto per avere un’idea, erano appena 73 miliardi di euro. Il tasso medio di crescita annuale si è attestato al 7,67%, tre volte di più rispetto all’incremento di una spesa per pensioni che però, come precisa a più riprese il rapporto, è sostenuta da contribuzioni di scopo.


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UNA SANITÀ IN CERCA DI RISORSE

Insomma, troppe risorse finanziarie per l’assistenza. E troppo poche per la sanità. Il servizio sanitario nazionale, secondo l’ultimo rapporto Oasi del Cergas, non riceve tutti i fondi di cui avrebbe bisogno per soddisfare le esigenze di cura della popolazione. Gli stanziamenti si fermano al 6-7% del Pil, contro il 10-11% che si registra in Francia, Germania e Regno Unito. E risultano totalmente insufficienti per garantire quell’universalismo che dovrebbe in teoria guidare le attività del sistema sanitario ma che poi, nei fatti, è ormai diventato un paradossale universalismo selettivo.
Il risultato è che attualmente la metà delle visite specialistiche e un terzo degli accertamenti risultano a carico dei cittadini. In futuro, complice l’invecchiamento della popolazione, la situazione peggiorerà ulteriormente se non vengono posti correttivi adeguati. Già oggi il 24% della popolazione italiana ha più di 65 anni, il 40% è affetto da una malattia cronica e il 21% deve fare i conti con più di una patologia. Più in generale, si stima che quasi quattro milioni di persone non siano autosufficienti. E il tasso di copertura del bisogno si ferma al 37%. Tutto il resto, ossia 2,4 milioni di persone, non riceve alcun tipo di servizio pubblico.

IL RICORSO AL PRIVATO (PER CHI PUÒ)

Di fronte a questo scenario, non stupisce che la spesa sanitaria privata abbia raggiunto nel 2022 quota 41,5 miliardi di euro. Appena cinque miliardi di euro sono risultati intermediati da soggetti privati come assicurazioni, casse aziendali, fondi sanitari integrativi e società di mutuo soccorso. Tutto il resto è pesato direttamente sulle tasche delle famiglie italiane come spesa out of pocket. La maggior parte delle uscite (49,7%) è stata destinata a prestazioni ambulatoriali come servizi medici, dentistici e diagnostici, a seguire (37,2%) acquisto di farmaci, prodotti medicali non durevoli e attrezzature terapeutiche.
In definitiva, il quadro che emerge dal rapporto è quello di un sistema sanitario caratterizzato da lunghe liste d’attesa e indisponibilità di strutture sanitarie, in cui il ricorso a operatori del settore privato diventa a volte una scelta quasi obbligata. Almeno per chi può permetterselo. Per tutti gli altri c’è invece spesso soltanto l’estrema decisione di rinunciare alle cure di cui avrebbe bisogno. Un’indagine di Eurispes ed Enpam, per esempio, stima che nel 2022 un quarto delle famiglie italiane abbia avuto difficoltà economiche nel reperire prestazioni sanitarie. Oltre il 33% dei cittadini ha dovuto rinunciare alle cure per la mancanza di strutture adeguate e per le eccessive liste di attesa. Di questo passo, sentenzia il rapporto, “curarsi diverrà una questione di censo”. 

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