NUOVE EMERGENZE: LE FRATTURE DELLE SOCIETÀ OCCIDENTALI

Aumentano diseguaglianza, povertà alimentare, abitativa, educativa. Il welfare non basta più e anche chi lavora fa fatica a far quadrare i conti. Istituzioni e soggetti privati devono sapere come intervenire per non lasciare nessuno indietro. Il settore assicurativo è in grado di farlo, per vocazione o anche per necessità?

NUOVE EMERGENZE: LE FRATTURE DELLE SOCIETÀ OCCIDENTALI
👤Autore: Fabrizio Aurilia Review numero: 93 Pagina: 36
Gli ultimi anni hanno messo a dura prova la tenuta e la stabilità delle società, e i prossimi potrebbero essere anche più difficili. Agli shock derivanti dalla pandemia si è sommata la guerra, con l’aggressione militare scatenata dalla Russia sul territorio dell’Ucraina. Una crisi che non può certo derubricarsi a conflitto regionale e che mette ancor più in discussione gli equilibri tra Nazioni, società e individui. Già, perché quando le tensioni internazionali sono ai massimi livelli, gli impatti si ripercuotono sull’equilibrio e sulla vita di tutti: s’indebolisce la cooperazione, nascono nuovi conflitti, aumentano gli egoismi. Valori come solidarietà, uguaglianza, attenzione per i più fragili, per le categorie svantaggiate, per gli ultimi, passano in secondo piano. Aumentano la diseguaglianza, le fratture sociali e la povertà. 
Insomma, tutto si tiene e nelle società più mature occorre un controllo sociale più forte, istituzioni, ma anche soggetti privati, che sappiano mantenere la barra dritta nei momenti difficili, per non lasciare nessuno indietro. Ci si chiede se il settore assicurativo sia in grado di farlo, per vocazione o anche per necessità. 

DISEGUAGLIANZE, POCHI RICCHISSIMI E TANTI POVERI

Negli ultimi anni, si diceva, sono emerse nuove fratture nelle società occidentali. Il principale nemico di queste ultime è la disuguaglianza, alimentata da fattori via via diversi, contingenti, ma anche da disparità strutturali radicate, che esulano spesso dal controllo istituzionale: discriminazioni di genere, di età, di orientamento sessuale, di razza, di condizioni socioeconomiche. Queste disuguaglianze minando il tessuto sociale, la fiducia tra le persone, le possibilità di sviluppo. 
Il divario più evidente, che con la pandemia non ha fatto che ampliarsi, è quello che esiste tra i più ricchi del mondo e i più poveri. Ma le disuguaglianze, per esempio nei Paesi Ocse, arrivano da lontano e continuano ad aumentare da oltre trent’anni. Il divario del reddito tra il 10% più ricco e il 10% più povero ha quasi raggiunto il rapporto di 10 a 1; negli anni ‘80 del Novecento era di 7 a 1. In Italia, il rapporto era cresciuto da 8 a 1 ad addirittura 11 a 1 già prima della pandemia. Il livello di concentrazione della ricchezza privata delle famiglie nei Paesi Ocse è ancora maggiore: oltre la metà della ricchezza totale è detenuta dal 10% più ricco: l’1% ne detiene un quinto. Le famiglie più povere sono esposte, sostanzialmente senza paracadute, agli shock esterni. 

OPPORTUNITÀ POCO ACCESSIBILI

Tra questi, c’è l’aumento dei prezzi delle materie prime e dell’energia, letteralmente esplosi durante la guerra della Russia all’Ucraina. L’inflazione è salita ben oltre il 5,7%, ed è inutile precisare o mettere in fila statistiche e paragoni con i decenni precedenti perché tanto ogni mese occorrerebbe aggiornali. La difficoltà delle famiglie a far quadrare i conti, però, è chiara nei numeri dell’Ocse: una famiglia su cinque nei Paesi europei ha grandi difficoltà di sostentamento, mentre una su sette ritiene probabile che uno o più componenti perda il lavoro entro tre mesi. Senza dimenticare che il costo della vita era già alto prima delle tensioni inflazionistiche, basti pensare che i prezzi medi delle case nei Paesi membri sono aumentati di quasi il 5% nel 2020, e gli affitti quasi del 2%. 
La sensazione è che le “opportunità siano sempre meno accessibili”. Anche prima della pandemia un’ampia maggioranza di cittadini dei Paesi Ocse era preoccupata dalle disparità economiche e chiedeva una distribuzione del reddito più equa. Nel 2017, quattro persone su cinque ritenevano che le disparità nel loro Paese fossero “eccessive”. 

LAVORARE NON PAGA

Quando si pensa alla povertà, in effetti, la si associa alla disoccupazione: è un riflesso automatico, frutto della nostra cultura e del nostro sistema, che assegna al lavoro la produzione del reddito e quindi al sostentamento, se non al benessere. Eppure, soprattutto negli ultimi decenni, non basta più avere un lavoro per non essere poveri. Da un documento del ministero del Lavoro e delle Politiche sociali emerge che circa l’11,8% dei lavoratori italiani è tecnicamente povero: si tratta del dato più alto tra gli Stati europei (media al 9,2%). La relazione del ministero sottolinea come in Italia, circa il 25% dei lavoratori percepisca una retribuzione inferiore al 60% della mediana e più di un lavoratore su dieci viva in un nucleo familiare il cui reddito netto equivalente è inferiore al 60% della mediana.
La pandemia ha peggiorato la povertà lavorativa: lavoratori atipici o irregolari hanno visto ridursi o azzerarsi il reddito da lavoro. E tuttavia, dietro l’in-work-poverty ci sono questioni strutturali: problemi demografici, salari stagnanti, instabilità delle carriere, part-time obbligato, aumento di lavori atipici ed espansione del settore dei servizi a bassa produttività.
Ma se la povertà lavorativa è evidente tra le classi produttive, e incide sulla produzione di ricchezza reale, altre due povertà, purtroppo, sono meno evidenti ma più gravi perché coinvolgono soprattutto i più giovani. Si tratta della povertà educativa e della povertà alimentare. 



SENZA EDUCAZIONE

Alla radice del primo tipo c’è la crisi del 2008. Save the children parla di povertà educativa riferendosi al “processo che limita il diritto dei bambini a un’educazione e li priva dell’opportunità di imparare e sviluppare competenze di cui avranno bisogno da adulti”. Questo processo è legato ovviamente alla povertà materiale, in un gioco di rimpalli: i bambini che crescono in famiglie con meno mezzi hanno più probabilità di conseguire peggiori risultati a scuola (si veda il box: I soldi fanno crescere il cervello), hanno meno opportunità sociali e culturali, e stentano così a realizzare il proprio potenziale. 
Una volta adulti, sarà più difficile per loro realizzarsi nella società e trovare lavori di qualità: è un processo che rischia di incancrenirsi generazione dopo generazione. 
Prima della crisi del 2008, la quota di minori in povertà assoluta era pari a quella della popolazione complessiva (3,1%). Negli anni successivi la povertà minorile è cresciuta più rapidamente rispetto a quella della popolazione generale e, nel 2020, lo scarto fra la povertà dei minori (13,5%) e quella della popolazione complessiva (9,4%) ha superato i quattro punti percentuali. Nell’anno dell’inizio della pandemia, in Italia il 13,5% dei giovani e giovanissimi risultava in povertà assoluta: si tratta di una popolazione di un milione e 337mila minori che non ha uno standard di vita accettabile.



SI LOTTA PER IL CIBO

E poi c’è la questione alimentare, quasi incredibile in un Paese come il nostro. In Italia, come emerge dai dati di uno studio pubblicato sulla rivista Social Indicators Research, firmato da Stefano Marchetti dell’Università di Pisa e Luca Secondi dell’Università della Tuscia, le persone a rischio di povertà alimentare sono il 22,3% dell’intera popolazione, un tasso che varia a livello regionale dal 14,6% dell’Umbria al 29,6% dell’Abruzzo passando per il 18,7% della Toscana, con elevati livelli di disuguaglianze soprattutto per quanto riguarda la possibilità di accedere quotidianamente a ortaggi, carne e pesce.
Accanto a questo indice, i ricercatori hanno inoltre fatto una stima dell’insicurezza alimentare degli italiani, condizione che si ha quando la quota della spesa per il cibo supera il 40% di quella totale. Dall’analisi emerge che in Italia questa condizione riguarda il 3,6% della popolazione, circa due milioni di persone, con un massimo in Calabria (9,7%) e un minimo in Veneto (0,9%). “Destinare una quota elevata della propria spesa al solo cibo – spiegano i ricercatori – denuncia una difficoltà a sostenere le spese per la casa, la salute e i servizi di base necessari, mettendo le persone a rischio di esclusione sociale”.

GLI ALLARMI DELLE NAZIONI UNITE

Proprio su quest’ultimo tema insistono gli allarmi lanciati recentemente dalle Nazioni Unite. Il Programma alimentare mondiale delle Nazioni Unite ha stimato che la guerra in Ucraina porterà 13 milioni di persone in più a soffrire la fame. Una situazione già compromessa dalla pandemia: prima del 2020, il problema riguardava circa 720 milioni nel mondo, oggi si è toccata quota 811 milioni. 
Il programma sta già spendendo circa 70 milioni di dollari in più al mese per far fronte alla nuova emergenza ma, dicono dalle Nazioni Unite, queste condizioni eccezionali renderanno necessario “un taglio delle forniture alimentari per quasi quattro milioni di persone e una revisione delle priorità”.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

👥

Articoli correlati

I più visti