UN RINNOVATO IMPEGNO PER LA CULTURA DEL RISCHIO

Comprendere le minacce non significa automaticamente saperle prevenire o mitigare; ma gli imprenditori di oggi, soprattutto i più giovani, sembrano più consapevoli e disponibili a capire che il futuro delle loro aziende spesso dipende dalla cura che mettono nel risk management

UN RINNOVATO IMPEGNO PER LA CULTURA DEL RISCHIO
Non è più il tempo del rischio di credito. O meglio, lo è sempre, solo che ora le aziende non sono più valutate solo in base alla loro capacità di ripianare i propri debiti. Ogni realtà è considerata in prospettiva anche in base alle capacità di sapersi rapportare alle minacce e alla loro conseguente mitigazione, nel solco di una complessità che è sempre maggiore. L’affidabilità e la robustezza delle imprese fanno i conti con qualcosa di più articolato. Ed è proprio questa materia mutevole che ha fatto nascere negli ultimi anni la necessità per il mondo produttivo di avvicinarsi al settore dei rischi. Cosa s’intende oggi per cultura del rischio in azienda? Come sta cambiando, in cosa deve ancora migliorare? Quale ruolo potranno avere le rappresentanze, i corpi intermedi (non solo del settore assicurativo), gli intermediari e le associazioni di categoria, i periti, in un mondo sempre meno intermediato e sempre più standardizzato? 
Il confronto della prima tavola rotonda, moderata da Maria Rosa Alaggio, direttore di Insurance Review, ha evidenziato proprio questo: una tensione nuova verso la cultura del rischio. 

RISCHIO NON È SINONIMO DI SCIAGURA

Nonostante questo, restano ancora gravi lacune, evidenziate soprattutto dal settore assicurativo. Secondo Luigi Di Falco responsabile protezione, vita e welfare di Ania, invitato a parlare in apertura del dibattito, in Italia non si è ancora sviluppato un approccio serio e consapevole alla gestione del rischio, cosa che si riflette nella sottoassicurazione sia dei privati sia delle aziende. Per Di Falco si dovrebbe pensare al rischio associandolo automaticamente a una sciagura, come spesso accade in Italia, ma inquadrandolo come qualcosa di cui farsi carico. 
“Il rischio – ha argomentato – è inserito in un contesto in continuo movimento, anche a fronte delle molteplici crisi aziendali. Con un approccio culturale di accezione negativa però non si va avanti: consideriamo che la raccolta premi italiana del ramo danni, senza Rc auto, rispetto al Pil è pari all’1%, contro più del doppio di quella degli altri Paesi europei. Dal punto di vista delle aziende ci sarebbe da aspettarsi un approccio diverso, soprattutto in un ambiente come quello in cui operano le imprese italiane, dove a maggior interconnessione corrisponde maggior vulnerabilità”. 
Eppure le aziende rispondono presente all’appello. È come se il tema dei rischi sia effettivamente più radicato nel tessuto aziendale ma non si sia ancora arrivati a quella fase di maturazione che porta le imprese, soprattutto quelle medio piccole, a prendere le dovute contromisure. 



CI VOGLIONO LE INIEZIONI

“La cultura del rischio sta però crescendo come elemento strategico”, ha sostenuto Marco Manzoni, già presidente dei giovani imprenditori di Confindustria Bergamo. Manzoni ha osservato come tra i rischi più sentiti nel suo territorio spicchi in realtà una minaccia atipica ma non così sorprendente: quella del passaggio generazionale. “Le aziende a gestione familiare – ha spiegato – spesso mancano di una cultura manageriale, cosa che mette a repentaglio il futuro dell’attività quasi più di quanto potrebbe fare una calamità naturale che si abbatte sull’azienda”. È importante quindi supportarle nel loro percorso di evoluzione culturale, con quelle che Manzoni definisce “iniezioni di sensibilità al rischio”. Questi contributi possono arrivare da molti ambiti: quello normativo è uno dei più efficaci. “L’aggiornamento della norma Iso 9001 del 2015 – ha sottolineato Manzoni – ha smosso certamente qualcosa: un percorso di obbligatorietà della gestione dei rischi aiuterebbe gli imprenditori italiani a prendere atto della necessità di proteggere quello che loro stessi definiscono il proprio gioiello”.

QUESTIONE DI FEELING (MANCATO) 

Tuttavia, come ha evidenziato il presidente di Aipai, Aurelio Vaiano, in Italia ci sono ancora troppi imprenditori che concentrano sulla propria persona troppe responsabilità. In questa categoria spesso c’è poca percezione per i rischi più basilari, come l’interruzione di attività o i danni indiretti. “Nel sistema italiano – ha commentato Vaiano – l’Rc prodotti è uno dei problemi principali per un’azienda gestita in maniera monocratica, mentre la percezione delle conseguenze reali di un’interruzione di attività è molto bassa: si può dire che non è nato un feeling tra il settore produttivo delle Pmi e la copertura assicurativa. Se è vero che oggi sta aumentando la sensibilità per i rischi come quello cyber o quello reputazionale è altrettanto vero che è ancora complesso comprenderne gli impatti reali, perché non ci sono ancora statistiche sufficientemente attendibili”. In questo contesto, secondo Vaiano, dovrebbe essere in primis l’intermediario a orientare l’imprenditore nell’individuazione delle aree di rischio. Ma la realtà si scontra con alcuni limiti. 


L’OPACITÀ DEI CONTRATTI E DELLE NORME 

Uno di questi, individuato dal presidente di Aiba, Luca Franzi De Luca, è la scarsa intelligibilità dei contratti e le correlazioni tra i rischi, non sempre ben evidenti. L’altro limite, citato dal presidente di Acb, Luigi Viganotti, è quello di un mercato ancora non sufficientemente aperto. 
“Le compagnie – ha osservato Franzi De Luca – spesso non sono in grado di rispondere al meglio, con i prodotti adeguati, ai bisogni dei clienti: c’è un problema di mercato poco ricettivo e standardizzato, forse anche poco aiutato dalle normative. Solvency II, per esempio, ha spinto verso un’ulteriore standardizzazione dei contratti, mentre la Idd, che codifica un percorso che già fa parte del lavoro quotidiano del broker, rischia di piegare a esigenze formali l’operatività e l’efficienza del nostro lavoro: non ho bisogno di una norma che mi obblighi a fare quello che già faccio”. 
Viganotti, invece, ha apprezzato proprio questo punto della nuova direttiva sulla distribuzione: “la Idd – ha spiegato – può essere un’opportunità per far evolvere la figura del broker attraverso un maggior impegno nella consulenza”.

UN PERCORSO A METÀ

Una critica sulla disponibilità dei prodotti e delle compagnie italiane arriva anche da Asseprim-Confcommercio, come ha sottolineato il vice presidente nazionale (con deleghe per finanza e assicurazioni), Francesco Saverio Losito. L’associazione ha fatto “uno sforzo immane”, per sensibilizzare gli imprenditori rispetto ai rischi d’impresa e dare anche dei contenuti pratici, guidando le imprese in un percorso che le portasse, qualora ne avessero avuta la necessità, alla sottoscrizione di polizze adeguate: “quando, tuttavia, gli imprenditori si sono affacciati al mercato assicurativo – ha rivelato Losito – sovente non hanno trovato le soluzioni che cercavano. Questo purtroppo genera sfiducia in chi ha faticosamente compiuto tutto il percorso di formazione sulla cultura del rischio”. 
Gli interventi di intermediari, periti e aziende hanno anche sottolineato la necessità di poter disporre di polizze più complete e soprattutto più chiare: una carenza che spesso pesa a sfavore della relazione tra compagnie, clienti e operatori. A questi rilievi ha risposto Di Falco, evidenziando che spesso c’è un gap d’intellegibilità dei contratti, e i prodotti hanno spazi di miglioramento. Ma l’Ania è convinta che le cose miglioreranno, soprattutto dopo la redazione di Contratti semplici e chiari, il vademecum che sarà pienamente operativo dall’anno prossimo. “Crediamo – ha aggiunto – che ci saranno sicuramente vantaggi sia per i clienti sia per gli intermediari”. 

CREARE DENSITÀ PROFESSIONALE

La soluzione proposta da Massimo Michaud, presidente di Cineas, per mettere d’accordo tutti è quella di fare sistema creando luoghi d’incontro, basandosi sul principio che la formazione non nasce solo dalle lezioni in cattedra ma anche dal confronto di esperienze: “è fondamentale – ha precisato – che i vertici delle aziende siano coinvolti e che possano in prima persona portare il loro contributo. Mi è capitato nel corso della mia carriera di imparare di più dai componenti della classe del corso di formazione che dagli insegnanti, perché nella classe c’era densità professionale. Molte delle opportunità che non cogliamo, ci sfuggono semplicemente perché non sappiamo abbastanza: Cineas ha sempre cercato di essere un ponte tra assicurazione e mondo produttivo, un luogo dove si fa cultura del rischio ad alti livelli”. 
In pochi anni molto è cambiato nel modo di gestire un’azienda. Dall’osservatorio di Cineas sulle medie imprese italiane, il 25% delle aziende con le performance migliori dichiara anche di provvedere a una gestione integrata del rischio: da quello finanziario, al cyber, passando per quello operativo. “Questa più elevata cultura del rischio – chiosa Michaud – garantisce quindi una migliore gestione dell’impresa e migliori risultati? Difficile dirlo. Ma è chiaro che chi si pone il problema di anticipare ciò che di negativo può avvenire ha una visione privilegiata del futuro”. 

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