RISORSE UMANE - IL FENOMENO DELLA RISTRUTTURAZIONE APPARENTE

A dispetto di molte strategie di riorganizzazione aziendale e di scenari di cambiamento illustrati sulla carta, a volte continuano a sopravvivere, anche per anni, modelli comportamentali dannosi nel nuovo contesto. Ecco come intervenire con efficacia nel tessuto dell’impresa, favorendo così la condivisione del progetto e l’evoluzione attesa

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Siamo abituati a considerare ogni intervento di ristrutturazione (conseguente a fusioni tra organizzazioni consolidate o ad adeguamenti per nuove attività o a cambiamenti profondi dell’assetto organizzativo) come un’attività di tipo strategico che coinvolge i vertici di una compagnia che hanno il compito di ripensare ruoli e funzioni in modo più razionale e produttivo, o funzionale a nuove esigenze.

Ed è proprio così. Ripensare l’azienda significa renderla coerente con strategie di efficienza ed efficacia di prodotto, di processo o di mercato, ma significa anche tener presenti i risultati pratici dell’azione strategica. Se da una parte dobbiamo tenere ferma la barra del timone per orientare la nave in una direzione precisa, dobbiamo anche ricordare che, in perfetta sintonia, dovranno operare tutti coloro che concorrono a governare l’imbarcazione.

La funzione di chi guida un’impresa è quella di aver bene presenti le linee guida e gli indirizzi strategici, ma, ai livelli inferiori, occorre che gli sforzi di ogni operatore siano in piena sintonia con gli obiettivi che l’azienda intende perseguire. I due aspetti devono marciare in parallelo, ma spesso è il secondo che viene trascurato perché si dà per scontato che le disposizioni impartite dall’azienda comportino in automatico il cambiamento dei comportamenti degli operatori.
Si fa insomma i conti senza l’oste che, in questo caso si chiama cultural gap.
Il fenomeno, studiato in antropologia e sociologia, riguarda il ritardo in termini di tempo tra il momento in cui interviene un cambiamento oggettivo e quello in cui le persone rendono conseguenti a questo cambiamento i propri comportamenti soggettivi. Quello che succede, in buona sostanza, è che la tendenza a operare come si è sempre fatto è più forte rispetto alla nuova situazione che si è determinata e a qualunque prescrizione aziendale.
Spesso questi atteggiamenti sono interpretati come una sorta di boicottaggio ai danni dei nuovi indirizzi aziendali, mentre sono solo un riflesso condizionato di cui le stesse risorse sono vittime.


IL LIMITE DEI VECCHI MODELLI COGNITIVI

Siamo portati a pensare e a ragionare con gli schemi che abbiamo nel tempo imparato a praticare svolgendo compiti che, nelle nostre abitudini mentali, portano a un risultato certo e previsto anche quando ci viene richiesto un altro tipo di lavoro. Il sociologo Domenico De Masi la descrive in questo modo: “Quando le novità intervengono, anche se immediatamente percepibili come vantaggiose, il nostro cervello non è in grado di riprogrammarsi in tempo reale per assumerle come criteri operativi: occorre tempo (…). Durante questa fase, spesso lunghissima, i singoli e la società continuano a gestire i tempi nuovi in base ai loro vecchi modelli cognitivi e comportamentali. È il fenomeno che gli antropologi chiamano cultural gap (o blocco culturale)…”1 

A dispetto pertanto dei programmi aziendali, vediamo sopravvivere, qualche volta per anni, modelli comportamentali dannosi nel nuovo contesto. La cosa è ben nota a chi è stato coinvolto in una fusione aziendale: le relazioni, le culture, i modelli mentali e addirittura le procedure delle persone che appartenevano a una determinata azienda rimangono vive e anzi si contrappongono in vari modi (qualche volta ostilmente) con quella che è considerata una componente estranea di un’altra azienda.
Se non si fa nulla rischiamo di effettuare una ristrutturazione apparente, viva sulla carta e negli organigrammi, ma non nel tessuto dell’impresa per un lungo periodo di tempo.





DALL'ORGANIGRAMMA AL CAMBIAMENTO MENTALE

Effettuare dei cambiamenti in  azienda che diano garanzie di efficacia ed efficienza presuppone operazioni sulle due componenti: quella hard (mediante la definizione e la formalizzazione dei nuovi ruoli, degli organigrammi, del materiale spostamento delle persone da un ufficio all’altro, delle riunioni operative, delle presentazioni e dei convenevoli con nuove persone e capi) e quella soft, che passa nella mente delle persone che devono riposizionare le loro prassi e abitudini in nuovi contesti, modalità, competenze e stili di comportamento.

Perché ci si concentra molto sulla prima delle due attività e si trascura spesso la seconda?
Come premessa dovremmo considerare il caso più estremo e cioè che il problema non sia neppure percepito, cosa che accade più frequentemente di quanto non si pensi. Consideriamo però l’ipotesi che esista consapevolezza di dover affrontare i problemi di natura soft conseguenti al cambiamento e domandiamoci quali possono essere i trabocchetti che dobbiamo evitare. 
La componente hard è più semplice da trattare e, anche nei casi più complessi, è relativamente agevole pervenire a una soluzione accettabile. I responsabili quindi, in primo luogo, sono naturalmente portati a dare più spazio e attenzione a ciò che più facilmente possono governare e i cui risultati possono concretamente dimostrare e documentare.
In secondo si parte dal presupposto che l’adeguamento delle risorse alle novità stabilite sia semplicemente una questione di buona volontà dei soggetti che ne sono coinvolti. Si ritiene cioè che non sia molto difficile adattarsi e che questo dipenda solo dalle persone sottovalutando i potenti condizionamenti del cultural gap che, in realtà, è la risultanza finale di continui e successivi adeguamenti mentali e comportamentali, magari durati anni. È impensabile che il prodotto di un lungo processo possa essere sovvertito in modo semplice e istantaneo.


UNA SERIE DI SOTTOVALUTAZIONI

È pur vero, e questo è il terzo punto, che vengono normalmente attivati dei piani formativi, ma il più delle volte, si tratta di interventi classici volti a spiegare e a dettagliare della nuova situazione ciò che le persone già sanno o potrebbero con poca fatica apprendere. Si trascura troppo spesso l’aspetto di motivazione e di coinvolgimento, unica strada per rendere concreto il cambiamento. 
In quarto luogo ci si affida a quella che è o che dovrebbe, in questi casi, essere la risorsa effettivamente più importante: i responsabili diretti. A loro sono affidate le risorse più importanti delle nostre aziende: le persone. Purtroppo però non sempre i responsabili degli uffici sono stati scelti, preparati e incentivati a svolgere il ruolo di guida nei momenti di cambiamento, in quanto le maggiori attenzioni si sono, spesso giustamente, concentrate sui problemi di natura gestionale, essendo il cambiamento considerato di natura eccezionale. Di conseguenza tali risorse sono, come di consueto, meno adeguate a questo specifico compito di quanto l’azienda ritenga.
In quinto luogo i meccanismi di controllo, monitoraggio e verifica delle componenti soft sono stati tradizionalmente trascurati. Non abbiamo infatti ricercato, studiato e formalizzato abbastanza i metodi per valutare risultati attesi parziali e conclusivi delle nostre iniziative orientate al cambiamento delle componenti soft del nostro lavoro. Si tratta sicuramente di una non facile attività, ma è pur vero che molto è possibile fare e che in passato non ci si è sforzati molto.





IL METODO "A TENAGLIA"

Che fare allora? Dovremmo rassegnarci a tempi lunghissimi e a periodi di ridotta efficienza ed efficacia delle strutture? A una serie di disservizi e a uno strascico di recriminazioni? A contrapposizioni tra gruppi di dipendenti che per anni mantengono le originarie identità di struttura o di azienda? 
Certamente no. Dobbiamo invece rimboccarci le maniche e lavorare di più sulle persone, anche se i progetti in questo senso sono più difficili e il risultato più incerto rispetto all’oggettività di un organigramma formalizzato in bella copia.
La soluzione sta in un metodo a tenaglia in grado cioè di agire sia sulle istanze che provengono dall’alto che su quelle sia provengono dal basso. L’efficacia dell’azione sta proprio nell’effetto congiunto di due forze che agiscono contemporaneamente, ma da direzioni opposte, nel raggiungere lo stesso obiettivo.
La spinta dal basso è molto più importante perché dobbiamo ottenere la collaborazione di persone che tradizionalmente si considerano oggetto e non soggetto degli interventi di ristrutturazione. In buona sostanza occorre rendere protagonisti della trasformazione proprio coloro che in qualche misura sono convinti di non esserlo.
Come fare a ottenere un tale risultato? Per ottenere il coinvolgimento concreto delle risorse occorre renderle protagoniste dei processi di trasformazione fin dalle prime battute, coinvolgendole nei progetti necessari a rendere operative le scelte strategiche dell’impresa. Significa sottoporre anche a loro i problemi che li riguardano e chiedere suggerimenti e proposte che potranno essere vagliate da chi ha l’autorità di decidere. L’esperienza ci dice che le soluzioni migliori spesso provengono da coloro che sono più vicini al problema. In questo modo si realizzano esattamente gli intenti dell’impresa che, dall’alto, è tenuta a dettare gli indirizzi e, dal basso, può fornire le soluzioni ottimali per conseguire gli obiettivi che gli stessi indirizzi perseguono.



1 Domenico De Masi, La fantasia e la concretezza, Rizzoli, 2003, p. 124
2 Basti ricordare le trasformazioni del gruppo General Electics negli anni '80, avvenuti sotto la guida di Jack Welsh che hanno visto il coinvolgimento della gran parte dei dipendenti di una enorme multinazionale e hanno fornito risultati in grado di orientare nel medio periodo il successo del conglomerato di aziende più complesso del mondo.




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