IL DIVARIO DI CITTADINANZA IN ITALIA

Le differenze tra Nord e Sud sono storiche ma non per questo ci si può abituare, anche perché le conseguenze dell’allarmante ampliamento delle disparità porta gravi conseguenze sul piano economico e anche assicurativo

IL DIVARIO DI CITTADINANZA IN ITALIA
👤Autore: Cinzia Altomare Review numero: 101 Pagina: 52-55
Alla fine di ogni anno vengono pubblicati rapporti di ogni genere sugli avvenimenti che hanno interessato il Paese e quello appena trascorso non ha risparmiato vicende drammatiche, che hanno avuto conseguenze rilevanti sul piano economico e assicurativo.
La guerra in Ucraina ha provocato diversi contraccolpi economici e sociali, e gli effetti dei cambiamenti climatici si sono abbattuti su tutte le regioni. Anche la pandemia non sembra voler recedere, per quanto la sua capacità di mietere vite si sia alquanto ridotta, grazie ai vaccini e alle cure scoperti nel frattempo. 
Abbiamo commentato questi eventi in più occasioni, cercando di approfondirne le ragioni e scandagliarne le conseguenze, ma un’inchiesta recentemente pubblicata dal quotidiano la Repubblica colpisce particolarmente, perché sembra riassumere in sé tante delle questioni che abbiamo analizzato. S’intitola L’Italia disuguale e descrive l’evoluzione che attraversa la nostra società e le differenze che ancora marcano le nostre regioni, tracciando un quadro spietato che rivela alcune sorprese davvero inaspettate.

UN PAESE CON PROFONDE DIFFERENZE

In ogni nazione esistono differenze culturali e vi sono territori più o meno sviluppati dal punto di vista economico e sociale. In Italia, siamo coscienti di questo fenomeno dai tempi in cui si è parlato per la prima volta della questione meridionale, ma è doloroso pensare a quanto si tratti ancora di un nervo scoperto per la nostra società. 
Non è una novità che il nostro sia un paese a due velocità, sia per quanto attiene allo sviluppo economico, sia per l’offerta di servizi ai cittadini. Dall’analisi dell’inchiesta, basata sulle rilevazioni effettuate dall’Istat e su alcune recenti pubblicazioni, come Il Rapporto sulla popolazione (Billari e Tommasini – Il Mulino, 2021); Il divario di cittadinanza (Bianchi e Fraschilla – Rubbettino, 2020); L’Italia longeva (Caselli, Egidi e Strozza – Il Mulino, 2021); e il Rapporto 2022 della Svimez, emerge una situazione più drammatica di quanto ci si possa aspettare, che rivela come nascere e abitare in molte zone d’Italia, uno dei paesi più industrializzati del mondo, capiamoci, si traduca in uno svantaggio nel poter usufruire di cure sanitarie, nello studio, nei trasporti, negli asili, nella fruizione culturale e, conseguentemente, nella capacità di molti italiani di costruire le basi per il futuro del Paese. 

LA DISEGUAGLIANZA DI LUOGO

Parlare di un divario economico endemico, come quello descritto nell’inchiesta, vuol dire denunciare carenze fondamentali nei servizi dei quali i cittadini possono usufruire, quegli strumenti, cioè, che non dipendono dal libero mercato e dall’iniziativa privata ma dal lavoro che dovrebbero fare le istituzioni perché tale svantaggio economico non si traduca ogni giorno in un grave svantaggio civile. In pratica, vuol dire parlare del futuro che destiniamo alle generazioni a venire. 
La disuguaglianza di luogo evidenziata ci mette di fronte l’immagine di un paese nel quale, prima delle differenze negli indicatori economici, diamo per scontata una differenziazione profonda nelle condizioni quotidiane di vita dei cittadini, che si traduce in una sorta di “diritto di cittadinanza dimezzato in una parte della nazione”.
Secondo l’Istat, nel 2018 la spesa pro-capite per interventi e servizi sociali da parte dei comuni nelle aree del Nord-Est è stata tre volte superiore a quella del Sud. Il divario tra le diverse zone del nostro paese rimane comunque piuttosto marcato, con il Centro e il Nord-Ovest che quasi si equivalgono, seguiti di poco dalle isole, e il Sud che arranca tremendamente.
Se in alcune parti del paese possiamo usufruire dell’Alta velocità per raggiungere luoghi anche molto distanti, ad esempio, è più complicato nelle regioni meridionali raggiungere località anche piuttosto vicine. Nel meridione, dove il trasporto ferroviario è nato (la prima linea ferroviaria, non dimentichiamolo, fu la Napoli-Portici), il 70% della rete è a binario unico (al Nord siamo al 52%) e ben il 43% di essa non è nemmeno elettrificata. 

UNA DELLE RAGIONI DELL’ALTA SINISTROSITÀ 

Legambiente ha pubblicato un rapporto sul pendolarismo, rilevando come al Sud i treni siano vecchi di almeno 20 anni e ci vogliano quattro ore per recarsi da Martinafranca a Otranto in Puglia, e tre ore da Ragusa a Palermo. Il tratto Siracusa-Trapani prevede un viaggio di 11 ore per colmare, con tre cambi, la distanza di 388 chilometri. Forse, chi pensa a costruire il ponte sullo stretto di Messina dovrebbe dare un’occhiata a questi dati, per capire quanto possa essere efficiente una simile infrastruttura, nelle condizioni correnti.
Ma la lettura di questi dati ci permette anche di comprendere come mai la sinistrosità nella Rca sia superiore in alcune zone rispetto ad altre: se non esistono servizi tali da ridurre la circolazione degli autoveicoli, perché i trasporti funzionano poco o non esistono per niente, è difficile pretendere che i cittadini abbiano comportamenti più sostenibili e virtuosi in questo senso.

L’EMIGRAZIONE SANITARIA

L’Istat ha inoltre pubblicato dati drammatici sulla mortalità neonatale e sulla cosiddetta emigrazione sanitaria. Il primo fenomeno risulta maggiore del 40% al Sud, mentre nelle regioni del Centro-Nord emigra l’85,5% dei pazienti sotto i 14 anni con malattie gravi (dati forniti dalla Fondazione Gimbe). 
Si tratta di un punto dolente riguardo alla qualità delle strutture ospedaliere presenti nel Sud e nelle isole, che si riflette sulla sinistrosità osservata nelle statistiche che interessano la responsabilità medica e il ramo malattia, ma ha risvolti indiretti anche sul ramo infortuni e su tutte le polizze esposte al danno alla persona in genere. 
È noto come poche compagnie di assicurazione accettino di assicurare ospedali e cliniche localizzati nel meridione, perché alcuni servizi denunciano una sinistrosità più elevata che altrove.

LA DESERTIFICAZIONE DEL SUD

Inoltre, negli ultimi decenni è stato letteralmente stravolto il luogo comune secondo il quale nel Sud ci sarebbero più nascite che al Centro-Nord. 
La spiegazione è qui più complessa. Da un lato, nelle zone del Centro-Nord è aumentato il tasso di natalità, dall’altro lo stesso si è drasticamente ridimensionato al Sud, con il conseguente calo della popolazione. La Svimez parla addirittura di un pericolo di desertificazione, anche per il gran numero di emigranti che dal Sud si è spostato e vive stabilmente al Nord, contribuendo con i propri nati a incrementare i tassi di natalità della popolazione settentrionale. 
Secondo i dati del demografo Massimo Livi Bacci, alla metà del Novecento il 37% della popolazione italiana viveva nel Mezzogiorno e contribuiva con quasi il 50% alle nascite del Paese. Ma nel 2070 è previsto che la popolazione italiana passi da poco più di 59 milioni a 47 milioni e 700 mila abitanti, con una perdita di 11 milioni e mezzo di abitanti, di cui ben sei milioni e 400 mila nel Mezzogiorno. 
In pratica, nel Sud la popolazione dovrebbe ridursi del 28,4%: un abitante su tre. Con questi ritmi, il meridione si trasformerà da area più giovane ad area più vecchia del Paese, con un’età media pari a 51,9 anni rispetto ai 49 anni del Nord. 



L’INVECCHIAMENTO FA CALARE IL PIL

Come abbiamo avuto già modo di sottolineare, le conseguenze dell’invecchiamento della popolazione sul piano macroeconomico possono essere molto gravi. Il Prodotto interno lordo si misura mettendo in relazione la produttività, l’occupazione, la partecipazione al mercato del lavoro, la struttura demografica e la dimensione della popolazione stessa. L’Istat ha calcolato che, ipotizzando nei prossimi 20 anni una riduzione della popolazione di quattro milioni di unità, il Pil in Italia cadrebbe di 6,9 punti. Se poi si tenesse conto della diminuzione della popolazione in età attiva, tale calo potrebbe arrivare addirittura al 18,6%. 
A parte le ricadute economiche dirette, sul piano assicurativo il fenomeno comporta una serie di problemi nella gestione dei sinistri che riguardano la Rca, la responsabilità medica e quella datoriale (la Rco), oltre al ramo infortuni e tutte le polizze esposte alle lesioni corporali. Statisticamente, all’aumentare della longevità e con l’incremento della popolazione anziana attiva, corrisponde un aumento dell’incidenza delle persone di età superiore ai 60 anni che subiscono lesioni traumatiche. Nel corso dell’ultimo trentennio, il numero di feriti per incidente stradale nella popolazione di questa fascia è raddoppiato, e quasi la metà degli infortuni domestici denunciati riguarda proprio soggetti con più di 60 anni. 

LESIONI MODESTE CAUSANO DANNI GRAVI 

Questi numeri spiegano quanto complesso sia divenuto il lavoro di liquidatori e medici legali che lavorano per le compagnie assicurative. L’accertamento e la valutazione del danno non patrimoniale (e in particolare del cosiddetto danno biologico) rappresentano una vera e propria sfida sul piano clinico e medico-legale, perché le persone più anziane presentano particolari caratteristiche fisiopatologiche e funzionali interessate dal processo di invecchiamento. Spesso, ad esempio, le conseguenze di lesioni relativamente modeste possono portare a gravi compromissioni funzionali, il che non è pensabile per i soggetti giovani.
La necessità di un diverso approccio alla valutazione delle lesioni, rapportato a un così grande numero di soggetti, non può che avere un notevole impatto sugli andamenti tecnici dei rami che interessano i danni alla persona e ciò avrà effetti, che non stanno tardando a palesarsi, sulle politiche delle compagnie assicuratrici.

LA SCOMMESSA DEI FIGLI E LA CONDIZIONE FEMMINILE

Il quadro che emerge dall’analisi che stiamo facendo è dunque quello di un’Italia a continua denatalità (probabilmente la più preoccupante in Europa), ad altissima longevità e soggetta a fortissime disparità territoriali in entrambi i campi. Lo slittamento in avanti dell’età media delle madri supera ormai i trent’anni in tutto il Paese e il secondo figlio è un’opzione sempre più rara.
Il fenomeno si spiega in buona parte con il timore per l’incertezza che accompagna le nuove generazioni e il posto per eccellenza di tale incertezza è al Sud, dove avere figli è diventata una difficile scommessa. Molte donne meridionali si spostano fuori dalle loro regioni alla ricerca di un impiego e quando lo trovano temono di perderlo a causa di una maternità non certo ben vista dal datore di lavoro. Esse sono inoltre spaventate dai costi rappresentati dalla necessità di mantenere i figli, dal momento che i nonni o gli altri parenti in grado di aiutarle sono lontani. Se restano al Sud, mancano gli asili pubblici e i costi di quelli privati sono proibitivi. 
Insomma, nel Sud il cambiamento della condizione della donna e le sue aspettative lavorative in rapporto agli studi fatti non è in alcun modo supportato dalla presenza dei servizi necessari per sostenerlo. Tutto questo spiega come mai, “oltre a una nuova geografia della mortalità si stia imponendo una nuova geografia della natalità”, ma spiega pure come mai il nostro paese rappresenti il fanalino di coda nella questione della parità di genere in Europa. Tutte le compagnie di assicurazione si stanno spendendo in questo senso, ma quanto possano essere efficaci tali sforzi è difficile da immaginare, di fronte a un divario geografico tanto marcato sul piano sociale. 

LE DIFFERENZE NEI SERVIZI PER L’INFANZIA

Tra il 2019 e il 2020 la quota di bambini che ha potuto usufruire dei servizi per l’infanzia offerti dai Comuni è stata del 19,3% al Centro-Nord e del 6,4% al Sud. A questo dato si deve aggiungere quello relativo al numero di alunni della scuola primaria che fruiscono del tempo pieno: si passa dal 48,5% nell’Italia centro-settentrionale (la metà degli scolari) al 18,6% in quella meridionale (meno di un quinto). La carenza di servizi è sottolineata anche dal fatto che nel Mezzogiorno quasi l’80% degli scolari non beneficia di alcun servizio mensa, mentre nel Centro-Nord solo il 46% non mangia un pasto a scuola. 
Da segnalare anche il dato relativo alle palestre: circa il 66% di tutte le scuole primarie del meridione non ne sono dotate. La Svimez, nel suo Rapporto del 2022, segnala che al Sud un minore su tre nella fascia di età tra i sei e i 17 anni è in sovrappeso, mettendo in relazione questo dato anche con l’assenza di possibilità di fare sport a scuola.

LA SCARSA DIGITALIZZAZIONE 

Quali possano essere le ricadute sull’evoluzione sociale del Paese, per quanto attiene alla salute della popolazione e al suo livello di istruzione, e quanto tutto questo pesi sullo sviluppo economico è facile immaginare. E la disparità investe tutti gli ambiti. Se osserviamo i dati della rilevazione Istat sulla spesa sociale dei Comuni, nella quale sono riportati i servizi offerti ai cittadini, dall’assistenza agli anziani al sostegno alle famiglie e ai minori, dalla sistemazione di immigrati agli aiuti ai disabili, notiamo che la spesa media per abitante in tutta Italia è pari a 124 euro, ma le differenze territoriali sono molto ampie. Al Sud abbiamo solo 58 euro, cioè meno della metà del resto del Paese. Questo vuol dire semplicemente che un cittadino meridionale riceve meno della metà dei servizi e delle prestazioni di un italiano residente nel Centro-Nord.
E le conseguenze non si limitano a questo. Prendiamo il dato che analizza la disuguaglianza di accesso alla digitalizzazione. Mentre i cittadini lombardi raggiungono le migliori competenze digitali, le regioni più indietro sono la Sicilia e la Calabria. Ciò spiega come mai, nel suo complesso, l’Italia dimostri un forte ritardo rispetto al resto d’Europa in questo campo. Solo il 42% degli italiani ha competenze digitali di base, mentre la media europea arriva al 58%. Ovviamente, esistono tante virtuose eccezioni anche nelle aree del Centro-Sud, ma il quadro complessivo risulta allarmante. L’inchiesta de la Repubblica suggerisce che uno sforzo per raggiungere una perequazione delle condizioni dei servizi resi ai cittadini inciderebbe sulla dinamicità dell’economia di tutta la nazione e comporterebbe invariabilmente un miglioramento della gestione della cosa pubblica. Da quanto abbiamo detto finora, i vantaggi per il comparto assicurativo, possiamo aggiungere, sarebbero evidenti.

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