COVID-19, LA TENUTA DEL SISTEMA PREVIDENZIALE

L’assetto pensionistico italiano non è stato travolto dalla pandemia: nel 2020, secondo l’ultimo rapporto di Itinerari Previdenziali, il sistema ha mostrato una certa capacità di tenuta. Preoccupano invece la crescita delle prestazioni sociali e un welfare diventato troppo generoso

COVID-19, LA TENUTA DEL SISTEMA PREVIDENZIALE
Spesa pensionistica in aumento, entrate contributive in calo, rapporto fra attivi e pensionati che, dopo un lungo periodo di progressivo miglioramento, è risultato per la prima volta da anni in deterioramento. Eppure, nonostante tutte le difficoltà generate dalla pandemia di coronavirus, il sistema previdenziale italiano ha mostrato nel 2020 una certa capacità di tenuta. E adesso, secondo l’ultima edizione de Il bilancio del sistema previdenziale italiano di Itinerari Previdenziali, il nostro assetto pensionistico si avvia rapidamente verso una maggiore sostenibilità.
Presentato a metà febbraio a Roma, con una conferenza stampa trasmessa in diretta streaming dalla sala Caduti di Nassirya del Senato, il rapporto fotografa un sistema previdenziale che ha retto bene l’urto della pandemia, e che non è stato travolto (almeno non nella misura che ci si sarebbe potuti aspettare) dalle conseguenze demografiche ed economiche dell’emergenza coronavirus. “A oggi il sistema è sostenibile e lo sarà anche tra 15 anni, nel 2035, quando anche le ultime frange dei baby boomer nati dal dopoguerra al 1980, in termini previdenziali assai significative, si saranno pensionate”, ha commentato Alberto Brambilla, presidente del centro studi e ricerche Itinerari Previdenziali.



PIÙ PENSIONATI, MENO LAVORATORI

La pandemia ha innanzitutto spinto al rialzo il numero di pensionati: dopo anni di progressivo calo a seguito delle ultime riforme previdenziali, le ricadute economiche dell’emergenza sanitaria hanno incentivato molte persone a scegliere la strada della pensione. In pratica, chi ne aveva la possibilità, ha osservato Brambilla, “ha preferito abbandonare il lavoro piuttosto che correre il rischio di rimanere disoccupato”. L’aumento, tuttavia, è stato piuttosto contenuto: nel 2020 si contavano poco più di 16 milioni di pensionati, appena 6mila in più di quanto si registrava nell’anno precedente. Un aumento dunque minimo, quasi trascurabile, comunque inferiore a quello che ci si sarebbe potuti aspettare, anche escludendo gli effetti della pandemia, con l’approvazione di quota 100 e con la conferma di dispositivi di anticipo pensionistico come opzione donna e ape sociale.
In diminuzione, invece, il numero di occupati. Nel 2020 si contavano meno di 16 milioni di lavoratori, cosa che ha spinto il tasso di occupazione generale al 58,1%. Diminuiscono le donne lavoratrici, che tornano al di sotto della soglia psicologica del 50%, e diminuiscono anche gli over 55, il cui tasso di occupazione si è fermato nel 2020 al 54,2%. 


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IL RAPPORTO ATTIVI-PENSIONATI

La dinamica demografica innescata dalla pandemia, con pensionati in aumento e lavoratori in diminuzione, ha avuto inevitabili ripercussioni anche sul rapporto fra attivi e pensionati. L’indice, dopo il picco di 1,458 lavoratori per ogni singolo pensionato raggiunto nel 2019, è calato del 2,4% e si è fermato nel 2020 a quota 1,424: si tratta della prima flessione negativa dal 2013.
I curatori del rapporto invitano tuttavia a non farsi prendere dal panico: stando alle previsioni della ricerca, gli scenari previsionali di ripresa economica, uniti agli effetti positivi che il Pnrr potrà avere su investimenti pubblici e privati, potranno consentire di incrementare la forza lavoro e di tornare, di conseguenza, su livelli di maggiore sostenibilità. Nel dettaglio, il rapporto ipotizza una rapida inversione di tendenza nel rapporto fra attivi e pensionati: entro il 2024, se le previsioni del centro studi si riveleranno corrette, l’indice dovrebbe assestarsi in prossimità dell’1,49, vicinissimo dunque a quell’1,5 che Itinerari Previdenziali considera da tempo necessario per garantire la sostenibilità a medio e lungo termine del sistema previdenziale italiano.


Alberto Brambilla, presidente di Itinerari Previdenziali

L’IMPATTO FINANZIARIO DELLA PANDEMIA

La pandemia ha mostrato i suoi effetti anche dal punto di vista economico e finanziario. La spesa pensionistica, a tal proposito, ha messo a segno nel 2020 un aumento dell’1,9% su base annua e si è attestata a poco più di 234 miliardi di euro. Le entrate contributive, viceversa, sono diminuite di quasi 14 miliardi di euro (-6,7%), concorrendo a generare un saldo negativo fra entrate e uscite di quasi 40 miliardi di euro: si tratta di un dato persino peggiore di quello che era stato registrato nel 2015, l’anno più critico dalla crisi finanziaria scoppiata nel 2008. A pesare, con un passivo di oltre 36 miliardi di euro, è soprattutto la gestione dei dipendenti pubblici, mentre tutte le casse privatizzate (con la sola eccezione dell’Inpgi) e quattro gestioni separate dell’Inps hanno chiuso il 2020 con il segno positivo.
Anche in questo caso, tuttavia, il rapporto invita a mantenere la calma ed evitare inutili allarmismi. Innanzitutto perché, come già anticipato, l’adesione a strumenti di anticipo pensionistico si è rivelata più bassa del previsto, agevolando così il mantenimento del deficit al di sotto delle stime più pessimistiche. E poi perché, ancora una volta, le positive prospettive di crescita economica potranno consentire di recuperare progressivamente i livelli occupazionali e, di conseguenza, di ammortizzare rapidamente le perdite che sono state registrate negli ultimi anni.


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IL PESO DELL’ASSISTENZIALISMO

L’assetto previdenziale italiano, almeno a giudicare dai numeri del rapporto, è dunque rimasto sostanzialmente sotto controllo. Cosa che invece non si può dire per il più generale sistema di welfare in Italia.
Le maggiori criticità permangono, come sottolinea il centro studi da anni, sul versante assistenziale. Il rapporto, a tal proposito, evidenzia che nel 2020 sono state erogate oltre quattro milioni di prestazioni totalmente assistenziali. Pari a 3,7 milioni sono i pensionati che, al netto delle duplicazioni, hanno ricevuto questo genere di prestazioni: considerando anche i titolari di altri generi di servizi assistenziali, si arriva a una platea di oltre 7,7 milioni di pensionati totalmente o parzialmente assistiti, pari al 47,9% di tutti coloro che hanno abbandonato il mondo del lavoro. Una situazione di questo genere, secondo Brambilla, “non sembra rispecchiare le reali condizioni socio-economiche del Paese”. Poco credibile, ha aggiunto, è anche che “la maggior parte di queste persone non sia riuscita in 67 anni di vita a versare quei 15-17 anni di contribuzione regolare che avrebbe consentito di raggiungere la pensione minima”.



UN WELFARE TROPPO GENEROSO

L’offerta di prestazioni assistenziali ha richiesto nel 2020 un esborso complessivo di oltre 144 miliardi di euro, cifra in rialzo del 62,6% rispetto al 2012.
Più in generale, però, è l’intero sistema di welfare a risultare, per dirla con le parole del rapporto, “generoso ma vulnerabile”. Nel dettaglio la spesa totale per pensioni, sanità e assistenza è arrivata a poco più di 510 miliardi di euro, quasi 22 miliardi in più (+44%) rispetto al 2019. Le risorse messe a disposizione per le prestazioni sociali sono arrivate a coprire il 30,9% del Pil: in pratica, al welfare state è destinato più di un quarto di quello che riesce a generare il sistema produttivo nazionale. “Siamo chiaramente davanti a numeri – ha detto Brambilla – che contraddicono il sentire comune secondo cui l’Italia spenderebbe meno degli altri Paesi dell’Unione Europea per il proprio sistema di protezione sociale: anzi, spendiamo molto, soprattutto in assistenza, ed è forse questa spesa eccessiva che, abbinata a inefficienti controlli, genera il tasso di occupazione peggiore in Europa”. L’aumento della spesa assistenziale in particolare, ha aggiunto Brambilla, “dovrebbe far riflettere la politica, incline a promettere nuovi sussidi senza pensare a come razionalizzare la spesa già esistente a scapito delle risorse per aumentare sviluppo e produttività”. Anche perché, a fronte di uno sforzo di questa portata, ci si potrebbe almeno aspettare un calo della povertà. Invece, ha concluso il presidente del centro studi, fra 2008 e 2019 “i cittadini in povertà assoluta sono più che raddoppiati e passati, secondo i dati dell’Istat, da 2,1 milioni a 4,6 milioni, mentre quelli in povertà relativa sono cresciuti del 36%: è il drammatico risultato – ha concluso Brambilla – del modello italiano basato sulla distribuzione di sussidi a piè di lista senza controlli, piuttosto che su un’effettiva presa in carico delle famiglie in difficoltà, lasciate sole e abbandonate sia da parte dei servizi sociali sia di quelli del lavoro”.

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