SVILUPPO SOSTENIBILE, LE RAGIONI DELL’OTTIMISMO

La sostenibilità va oltre il concetto di crescita: è l’evoluzione stessa del modello. Il motore sono l’innovazione e le policy delle istituzioni che, in particolare in Europa, sono molto avanzate. La realtà è che la strada è tracciata, occorrono solo più energie per trasformare gli schemi in prassi condivise

SVILUPPO SOSTENIBILE, LE RAGIONI DELL’OTTIMISMO
👤Autore: Fabrizio Aurilia Review numero: 101 Pagina: 34-37
Puntare decisi alla crescita sostenibile? No, non basta, non è corretto. O meglio “le parole crescita sostenibile stanno un po’ strette: meglio parlare di sviluppo sostenibile, perché crescita e sviluppo hanno due significati e connotazioni differenti”. 
Già da questa premessa, si evince come spesso i discorsi sulla sostenibilità manchino il punto. Questa differenza tra i concetti di crescita e di sviluppo, dichiara Carlo Cici, partner e head of sustainability di The European House-Ambrosetti, è essenziale per capire il mondo di oggi e, si spera, di domani.
“La crescita – spiega Cici – è quantitativa e sempre uguale a sé stessa, mentre lo sviluppo è un’evoluzione del sistema stesso, il passaggio da uno stato a un altro. Lo sviluppo sostenibile prevede cambiamenti di paradigma”. Cici fa un esempio molto chiaro: “il pulcino cresce e diventa una gallina, mentre l’uovo si sviluppa e diventa un pulcino, sono due cose molto diverse”.

UN DISCORSO ANTICO

In quest’ottica l’innovazione è il motore di questo sviluppo ed era evidente che fosse così fin dagli anni Settanta, precisamente da 1972 quando, a Stoccolma, nella Conferenza delle Nazioni Unite sull’Ambiente umano, 113 nazioni redigono un piano d’azione con 109 raccomandazioni, attorno a 26 principi sui diritti e le responsabilità dell’uomo in relazione all’ambiente. Tra questi principi, ci sono la libertà, l’uguaglianza e il diritto ad adeguate condizioni di vita; la necessità che le risorse naturali siano protette, preservate e opportunamente razionalizzate per il beneficio delle generazioni future; il ruolo importante della conservazione della natura all’interno dei processi legislativi ed economici degli Stati. “Insomma – commenta Cici – era evidente già allora che ci saremmo trovati in questa situazione”. 



INNOVAZIONE E TECNOLOGIA

Purtroppo, di pari passo con l’aumento della sensibilità e della cultura riguardo queste nozioni, è cresciuto un paradossale scetticismo nei confronti della scienza. Carlo Cici, a questo proposito, comprende appieno la frustrazione degli scienziati, ma contemporaneamente, è fiducioso sulle possibilità dell’innovazione, come abilitatrice di sviluppo e quindi anche di sviluppo sostenibile: “l’innovazione – continua – può fare cose inimmaginabili, lo abbiamo visto con la pandemia, quando in dieci mesi siamo riusciti ad avere i vaccini”. Tuttavia, la tecnologia è anche la principale causa dello sfruttamento intensivo delle risorse, ma è anche quella cosa che può risolvere i problemi. “Prendiamo ad esempio i costi delle energie rinnovabili – sottolinea Cici –, nessuno aveva immaginato una riduzione così consistente e in così breve tempo. Quindi credo che innovazione e tecnologia possano essere le vere chiavi dello sviluppo sostenibile”. 

OBIETTIVI AMBIZIOSI

Rifuggendo da approcci più deterministi e quindi schematici, secondo Cici, occorre riconoscere che l’Europa è “il continente che ha fatto le scelte più estreme” in tema di sostenibilità. Questa è una realtà che, purtroppo, fa fatica a passare: “la questione – rileva l’analista – non è certo quella di mettere in evidenza il problema della sostenibilità”. L’agenda Fit for 55, il pacchetto europeo di obiettivi e riforme sul clima, è un dispositivo per il quale “mancano le tecnologie”, ma è una “scelta iper-coraggiosa perché ci allinea alla scienza, a ciò che la scienza ci chiede”. Darsi degli obiettivi senza sapere come raggiungerli, insiste Cici, “non è assolutamente una cosa sbagliata, ma lo sarà se non li centreremo”. 
Occorre capire che nel punto in cui siamo, le politiche ci sono già: non serve imbrattare i palazzi delle istituzioni per portare all’attenzione dell’opinione pubblica questi problemi, semmai “bisogna gettare la vernice su un modello di sviluppo o sulle singole aziende che non vogliono cambiarlo”.

UN MODELLO GIÀ AVVIATO

Con il Green Deal del 2019, l’Europa investirà 1.000 miliardi di euro per lo sviluppo sostenibile, cui si affiancano tutte le altre policy: dalla tassonomia alla certificazione dei prodotti. “Si tratta di un nuovo modello che stiamo costruendo, grazie al quale sarà sempre più semplice capire subito se un determinato prodotto o una strategia industriale è sostenibile o meno”, spiega Cici. Un modello che, in parte, è già operativo per le imprese quotate che, in Europa, già dal prossimo marzo dovranno pubblicare la quota di ricavi dei capex (capital expenditure) e degli opex (operating expense) sostenibili, definiti con soglie quantitative grazie alla tassonomia sostenibili: “questi numeri – evidenzia il partner di The European House-Ambrosetti – non rimangono all’interno del sistema finanziario, ma saranno divulgati al pubblico, ai risparmiatori che vanno in banca e sapranno il grado di allineamento alla finanza sostenibile dei singoli titoli che stanno acquistando”.



DOVE METTERE I SOLDI

Ma non è certo solo la finanza investita da questi cambiamenti: ogni materia economica e industriale è attraversata da questo processo di standardizzazione ai principi di sviluppo sostenibile, che consentiranno a chiunque, anche ai meno interessati e sensibili, di cambiare il proprio modello di consumo. 
Per fare tutto questo, “i soldi ci sono”, ribadisce Cici, “ma dev’essere chiaro dove metterli”. Il rovescio della medaglia è che, “nonostante la Commissione Europea abbia fatto tutte le scelte giuste, la messa a terra operativa è molto cervellotica” e le aziende hanno grosse difficoltà. “Se l’Europa facesse molto bene questo esercizio concreto – riflette Cici –, avendo i 500 milioni di clienti più ricchi del mondo, pur non contando granché a livello geopolitico avrebbe comunque un vero ruolo di leadership”.

IL RUOLO DEL SETTORE FINANZIARIO

Per rendere operative le proprie policy, le istituzioni europee stanno dando al mondo finanziario e assicurativo il ruolo di supplente-controllore. In questi anni, tutte le aziende finanziarie hanno visto moltiplicarsi i propri obblighi in tema di sviluppo sostenibile. “Banche e assicurazioni – spiega Cici – sono state incaricate di misurare il rischio climatico dei propri clienti, indipendentemente dalla loro reale capacità di farlo”. E anche questa è una cosa positiva perché solo così si cambia il modello. “Le istituzioni finanziarie – continua l’analista – sono costrette a farsi carico di questo compito dai regolamenti: istituti di credito e compagnie assicurative si trovano ora in questo snodo e quindi, volente o nolente, lo dovranno fare”.



IL RISCHIO FRAMMENTAZIONE

In ultima analisi, allargando lo sguardo al resto del mondo, il grande rischio sulla strada del successo delle politiche di sostenibilità è la frammentazione, la mancanza di un coordinamento globale, di una sorta di multilateralismo dello sviluppo sostenibile. Insomma, un tema di governance che non può avere come bersagli solo le organizzazioni statali. “Secondo il World inequality report, curato da Thomas Piketty – spiega Carlo Cici –, il 70% delle emissioni è prodotto dal 10% delle persone più ricche: ciò significa che bisogna cambiare mira e non parlare solo delle scelte di un singolo paese. Se prendiamo la Cina – continua – scopriamo che, per esempio, si è data criteri per green bond più stringenti rispetto alla tassonomia europea. È evidente che una crisi climatica non se la può permettere nessuno, tantomeno la Cina che avrebbe un impatto devastante”. In Pakistan le inondazioni nel 2022 sono costate il 3% del Pil: se riportiamo il dato all’Italia significherebbe 450 miliardi di euro.
“In definitiva – conclude Cici – i segnali di ottimismo ci sono: la realtà è che noi sappiamo cosa fare, occorre trovare più energie per farlo”. 

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