RISK MANAGEMENT, LA LEZIONE INASCOLTATA DEL COVID-19

Meno della metà delle imprese italiane di medie dimensioni, secondo l’ultimo osservatorio di Cineas e Ipsos, ha tratto esperienza dalla pandemia e istituito adeguati sistemi di gestione del rischio. In crescita invece l’attenzione alla sostenibilità

RISK MANAGEMENT, LA LEZIONE INASCOLTATA DEL COVID-19
👤Autore: Giacomo Corvi Review numero: 94 Pagina: 16
La lezione del coronavirus rischia di rimanere inascoltata. Solo poche imprese sembrano infatti aver tratto qualche insegnamento dall’esperienza della pandemia. E pochissime sono quelle che ne hanno approfittato per istituire sistemi più adeguati di prevenzione e gestione del rischio. Il risultato è che, secondo l’ultima edizione dell’Osservatorio sulla diffusione del risk management nelle medie imprese italiane, per la maggioranza delle aziende le cose sono rimaste così com’erano: per loro la pandemia è quasi come se non ci fosse mai stata.
Realizzata da Cineas in collaborazione con Ipsos, la ricerca è stata realizzata su un campione di 350 aziende manifatturiere italiane di medie dimensioni ed è stata presentata lo scorso 13 aprile al Politecnico di Milano, in un evento che ha messo a confronto esponenti del mondo delle imprese, della ricerca accademica e, chiaramente, anche del risk management. Secondo i risultati dell’indagine, solo il 44% delle imprese intervistate ha dato maggior risalto alla funzione aziendale di gestione del rischio: per tutte le altre, ben il 56% del totale, la pandemia di coronavirus non ha avuto alcun effetto tangibile. Più in generale, appena il 26,5% delle aziende giudica prioritaria l’introduzione di un efficace sistema di gestione e controllo del rischio. Percentuali bassissime, soprattutto di fronte a quelli che Massimo Michaud, presidente di Cineas, ha definito in apertura “rischi esistenziali”, ossia rischi che, come nel caso della pandemia, possono mettere a repentaglio la sopravvivenza di persone, imprese e società. “Questi rischi – ha detto Michaud – richiedono mentalità e approcci differenti, non sono rischi che possono essere accettati e vanno affrontati ai massimi livelli, coinvolgendo attivamente consiglio di amministrazione e top management”.


Massimo Michaud, presidente di Cineas

AL DI FUORI DEL BOARD

Il problema è che al momento, stando ai risultati dell’indagine, la gestione del rischio entra solo raramente nelle stanze del cda: appena il 44% delle imprese dispone di un sistema di mappatura del rischio che coinvolge anche il board. “La presenza di una governance dei rischi è importante in un modello evoluto di gestione del rischio”, ha osservato Michaud. “Pertanto – ha aggiunto – esiste una sostanziale differenza di approccio tra le imprese che portano i temi del risk management al livello del consiglio di amministrazione e quelle che invece gestiscono il rischio come componente tecnica”.
Questa differenza di approccio ricorre spesso nelle pagine della ricerca. Per il 58,4% delle imprese che dispongono di modelli di mappatura del rischio al livello del cda, per esempio, il risk management consente di razionalizzare le decisioni e di strutturare meglio la governance aziendale, delineando un vero e proprio approccio di business. Viceversa, per le altre si tratta semplicemente di strumenti per salvaguardare i mezzi di produzione e la continuità d’impresa (53,1%) o, più candidamente, per ottemperare a specifiche normative (53,1%). In pratica, come ha ben sintetizzato Enzo Risso, direttore scientifico di Ipsos, “i modelli di mappatura e gestione del rischio sono per alcune imprese strumenti strategici per lo sviluppo aziendale, per altre dei semplici mezzi di sopravvivenza”.

DIMENSIONE SOCIALE D’IMPRESA

Nel concreto, la pandemia di coronavirus ha di fatto favorito la diffusione del risk management soltanto nelle imprese che già disponevano di strumenti per la gestione del rischio. Ben altro impatto ha invece avuto l’emergenza sanitaria sulla trasformazione digitale (60,1%) e poi anche sulla consapevolezza del ruolo sociale d’impresa (30,6%), tema quest’ultimo che è stato posto al centro di uno specifico approfondimento dell’osservatorio.
L’indagine fotografa un settore produttivo che sembra aver ormai abbracciato le cosiddette tematiche Esg (environmental, social e governance). Il 76,9% delle imprese si dice impegnato nel raggiungimento degli obiettivi di sviluppo sostenibile, principalmente attraverso l’uso responsabile delle materie prime (71,6%), la promozione del benessere dei dipendenti (51,5%) e la definizione di adeguate condizioni di lavoro (50,3%). La questione raggiunge spesso il livello del consiglio di amministrazione (29%) e si intreccia saldamente alla gestione del rischio: solo il 19,3% delle imprese non vede alcuna relazione diretta fra questi due elementi, mentre per il 37,9% delle aziende il risk management contribuisce positivamente allo sviluppo sostenibile. Non mancano tuttavia le zone d’ombra, visto che spesso l’impegno si ferma alle intenzioni: il 63,7% delle imprese non ha assegnato alcun budget al raggiungimento degli obiettivi di sviluppo sostenibile e il 35,6% non ha istituito sistemi di monitoraggio dei risultati raggiunti.



L’IMPEGNO NEI PARAMETRI ESG

Il tema della sostenibilità è stato al centro della tavola rotonda che ha concluso l’evento. Punto di partenza della riflessione è che, come ha osservato Roberta Marracino, strategy expert sulle tematiche Esg, “tutte le imprese sono investite dall’evoluzione dello scenario e, di conseguenza, dalle nuove prospettive di rischio: oggi – ha detto – servono strategie di sviluppo che vadano oltre la semplice questione del costo aziendale”.



Un esempio di questa strategia è stato portato da Giuseppe Pasini, presidente di Feralpi Group. “L’industria dell’acciaio – ha affermato – è uno dei settori più energivori e l’attuale aumento dei costi dell’energia ci spingerà sempre più a cercare fonti alternative, magari sostenibili: per questo motivo, abbiamo stanziato un fondo da 100 milioni di euro per raggiungere un obiettivo del 20% del nostro fabbisogno energetico da fonti rinnovabili”. Sulla stessa linea anche Donato Iacovone, presidente di WeBuild, il quale ha sottolineato il contributo dell’innovazione tecnologica nello sviluppo sostenibile e nella prevenzione del rischio. “La tecnologia – ha affermato – può consentirci di sviluppare materiali dal minor impatto ambientale e definire soluzioni che possano garantire un costante ed efficace monitoraggio di tutte le componenti di rischio di un’infrastruttura”.



CULTURA PER LA GESTIONE DEL RISCHIO

La pandemia di coronavirus ha poi fatto ben comprendere tutti i rischi legati alla supply chain, come ha evidenziato Maurizio Marchesini, vice presidente di Confindustria per le filiere e le medie imprese. “L’emergenza sanitaria – ha commentato – sta spingendo gli operatori verso una maggiore affidabilità della filiera produttiva, per evitare così che eventi imprevisti, come nel caso della pandemia, possano rallentare la catena dei fornitori e bloccare la produzione di un bene e servizio”.
Resta però il fatto che qualsiasi tipo di investimento porta con sé una certa dose di rischio. Ecco perché, secondo Giorgio Basile, vice presidente di Cineas per il settore imprese, è bene “svolgere sempre un’adeguata attività di risk assessment: nessun stanziamento di fondi dovrebbe esulare da un’attenta valutazione del rischio”. Alla base, però, serve una cultura del rischio che ancora manca in Italia. “In Cineas ci occupiamo di questa tematica in maniera completa”, ha detto in chiusura Michaud. “Dobbiamo sempre più parlare di rischio – ha concluso – perché vuol dire parlare di una componente essenziale di business”.

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