PREVIDENZA, I FRONTI DI ATTENZIONE

Età di pensionamento, misure di anticipo e assistenza: sono questi, secondo Itinerari Previdenziali, gli elementi da tenere sotto controllo per garantire la sostenibilità a lungo termine del sistema pensionistico in Italia

PREVIDENZA, I FRONTI DI ATTENZIONE
👤Autore: Giacomo Corvi Review numero: 101 Pagina: 22-25
L’età di pensionamento, le possibili misure di uscita anticipata dal mercato del lavoro e poi, nuovamente, la gestione di un sistema assistenziale che negli anni si è rivelato forse troppo generoso e, di conseguenza, anche piuttosto vulnerabile. Sono questi, secondo il centro studi e ricerche Itinerari Previdenziali, gli elementi principali da tenere sott’occhio per garantire la sostenibilità a lungo termine di un sistema pubblico previdenziale che, nonostante il duro colpo inferto dalla pandemia di coronavirus, ha saputo dimostrare una certa capacità di tenuta. Il monito è arrivato il 18 gennaio con la pubblicazione del rapporto Il bilancio del sistema previdenziale italiano. Andamenti finanziari e demografici delle pensioni e dell’assistenza per l’anno 2021.
“A oggi il sistema è sostenibile e lo sarà anche tra 10-15 anni, quando le ultime frange dei baby boomer nati dal dopoguerra al 1980 saranno andate in pensione”, ha osservato Alberto Brambilla, presidente del centro studi, nel corso della conferenza stampa indetta a Roma, presso la Camera dei Deputati, per presentare i risultati del rapporto a media e addetti ai lavori. “Perché si mantenga questo delicato equilibrio – ha tuttavia subito ammonito Brambilla – sarà però indispensabile intervenire maniera stabile e duratura sul sistema, tenendo conto di quattro principi fondamentali: le età di pensionamento, attualmente tra le più basse d’Europa nonostante un’aspettativa di vita tra le più elevate a livello mondiale, e che dovranno dunque gradualmente aumentare; l’invecchiamento attivo dei lavoratori, attraverso misure volte a favorire un’adeguata permanenza sul lavoro delle fasce più senior della popolazione; la prevenzione, intesa come capacità di progettare una vecchiaia in buona salute; e le politiche attive del lavoro, da realizzare di pari passo con un’intensificazione della formazione professionale, anche on the job”.



I NUMERI DEL SISTEMA PREVIDENZIALE

Il sistema pubblico previdenziale, come detto, non desta al momento particolari preoccupazioni. Nel 2021 la platea dei pensionati è tornata ad ampliarsi, stabilizzandosi poco sopra la soglia dei 16 milioni di persone uscite definitivamente dal mercato del lavoro, soprattutto grazie alle numerose deroghe introdotte negli anni alla legge Fornero e, in particolare, al recente esperimento previdenziale di quota 100. In risalita, dopo la battuta d’arresto del 2020 causata dalla pandemia di coronavirus, anche il numero di occupati, arrivato ormai a sfiorare il muro dei 23 milioni di lavoratori e capace di generare un tasso di occupazione di circa il 60%, praticamente sui livelli che si registravano prima dell’emergenza sanitaria.
Migliora, sulla base di questi risultati, anche il rapporto fra attivi e pensionati. Nel 2021, secondo i dati del rapporto, si contavano 1,42 lavoratori per ogni pensionato, dato in risalita rispetto all’1,38 del 2020 ma comunque ancora lontano dal massimo storico di 1,44 toccato nel 2019 e, soprattutto, da quell’1,5 che, secondo Itinerari Previdenziali, potrebbe garantire la stabilità a medio e lungo termine di un sistema previdenziale a ripartizione come quello italiano.



LA SPESA PENSIONISTICA

Ancora in rosso, invece, il bilancio fra entrate e uscite previdenziali. Il rapporto stima che nel 2021 sono state erogate oltre 22 milioni di prestazioni pensionistiche: calcolatrice alla mano, fanno 1,4 trattamenti previdenziali a pensionato, ossia il livello più basso registrato dal 2007. La spesa pensionistica è ammontata a poco più di 238 miliardi di euro, in rialzo dell’1,5% rispetto al 2020 ma comunque 0,4 punti percentuali in meno rispetto al tasso di crescita dell’inflazione, per un’incidenza complessiva sul Pil del 13,42%. Aumentano anche le entrate contributive, sulla scia del già citato innalzamento dei livelli occupazionali: i versamenti contributivi, nel dettaglio, sono ammontati a poco più di 208 miliardi di euro, in crescita del 6,58% su base annua.
Il saldo, come detto, resta negativo. Per circa 30 miliardi di euro per la precisione, a seguito principalmente del rosso da 37 miliardi di euro fatto registrare dalla gestione dei dipendenti pubblici. In positivo invece, nonché in recupero rispetto ai risultati del 2020, le quattro gestioni obbligatorie dell’Inps, così come le casse privatizzate dei liberi professionisti.

IL PESO DELL’ASSISTENZIALISMO

A pesare, come già emerso in numerose ricerche di Itinerari Previdenziali, è soprattutto il conto dell’assistenza. Il rapporto, a tal proposito, stima che nel 2021 la spesa complessiva per prestazioni assistenziali sia ammontata a 144,2 miliardi di euro, praticamente raddoppiata (+97,7%) rispetto agli appena 73 miliardi di euro che erano stati elargiti nel 2008: il tasso di crescita annuo si è attestato sopra il 6%, addirittura tre volte superiore a quello registrato per la spesa pensionistica. Numeri che spingono i curatori del rapporto a parlare di “un welfare sempre più generoso e vulnerabile”.
L’indagine evidenzia poi che sette milioni di pensionati (44%) hanno ricevuto nel 2021 trattamenti di natura totalmente o parzialmente assistenziale, per un costo totale annuo di oltre 21 miliardi di euro. “Non sembra rispecchiare le reali condizioni socio-economiche del Paese un dato che vede quasi la metà dei pensionati italiani assistiti, del tutto o in parte dallo Stato”, ha commentato Brambilla. “Così come non pare credibile che la maggior parte di queste persone – ha aggiunto – non sia riuscita in 67 anni di vita a versare neppure quei 15/17 anni di contribuzione regolare che avrebbe consentito di raggiungere la pensione minima”.



UNO SFORZO INUTILE

Più in generale, il rapporto afferma che la spesa di welfare nel 2021 è stata pari al 29,16% del Pil, al 60,36% delle entrate contributive e fiscali e al 52% della spesa complessiva. In pratica, si legge nel rapporto, “al welfare è destinato più di un quarto di quanto si produce o più della metà di quanto si incassa e di quanto si spende in totale”. 
L’Italia, a differenza di quello che si potrebbe immaginare, spende dunque moltissimo in welfare. Il problema è che spende male: nonostante tutte le misure messe in campo, il livello di povertà è infatti risultato in netta crescita negli ultimi anni. A fronte di una spesa di queste dimensioni, ha osservato Brambilla, “ci si aspetterebbe per contro quantomeno una riduzione del numero dei poveri e invece, secondo i dati dell’Istat, i cittadini in povertà assoluta sono più che raddoppiati, passando da 2,11 a 5,6 milioni, mentre quelli in povertà relativa sono saliti da 6,5 a 8,8 milioni”.

TUTTO SULLE SPALLE DI POCHI

Sul tavolo resta infine il tema su come e chi finanzia la spesa di welfare. Se per la previdenza si può parlare di un sistema in grado di finanziarsi autonomamente grazie alla contribuzione di scopo, lo stesso non si può dire per sanità e assistenza: nel dettaglio, si tratta di una somma complessiva di oltre 270 miliardi di euro, a cui poi vanno aggiunti un’altra decina di miliardi riferibili al welfare degli enti locali, che deve essere finanziata attraverso la fiscalità generale. Il risultato è che nel 2021 sono state necessarie tutte le imposte dirette (e anche parte di quelle indirette) per finanziare la spesa per sanità e assistenza.
E chi paga queste somme? Secondo i risultati del rapporto, principalmente quei cinque milioni di contribuenti che dichiarano redditi superiori ai 35mila euro all’anno e che si trovano a dover pagare quasi il 60% di tutta l’Irpef. Insomma, molto (quasi tutto) resta sulle spalle di pochi.

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