UN PAESE IN MOVIMENTO

Solo negli ultimi 50 anni in Italia le catastrofi naturali sono state così tante da non riuscire a ricordarle tutte: ciò nonostante, gli italiani non sono ancora convinti di vivere in un paese fragile, tanto da continuare a costruire nei modi (e nei luoghi) sbagliati. Il rischio sismico è misurabile, ma serve la volontà collettiva di cambiare le cose

UN PAESE IN MOVIMENTO
Ogni scossa di terremoto che si registra in Italia è come un brusco risveglio: siamo un Paese a elevato rischio sismico, ma spesso ce lo dimentichiamo. Casamicciola nel 1883 aveva subito un terremoto che quasi ne dimezzò la popolazione. L’Abruzzo è stato spesso colpito negli ultimi 200 anni, e lo stesso vale per molte altre zone. Secondo Carlo Doglioni, presidente dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia (Ingv) non sta accadendo nulla di diverso dal passato: “I terremoti sono manifestazioni a-periodiche, silenti per anni per poi talora presentarsi a grappolo. Tra il 1904 e il 1920 ci sono stati in Italia quindici terremoti con magnitudo uguale o superiore a 5.5, di cui quattro furono tra i maggiori del ’900: Calabria centrale (1905), Messina-Reggio (1908), Avezzano (1915) e Garfagnana (1920). In media, ogni secolo, la Penisola conta una ventina di eventi sismici calamitosi”. I tempi della geologia non sono i tempi dell’uomo: i terremoti che si sono verificati nel secolo scorso hanno interessato pressoché tutta l’Italia, e questo fa ritenere che, con una visione temporale più ampia, non vi siano zone più colpite di altre, così come non ce ne siano di certamente esenti. 


STORIA E SCIENZA  UNITE PER PREVEDERE 

Le geoscienze si stanno affinando per poter ridurre gli elementi di imprevedibilità del terremoto. Per questo si associano informazioni storiche ad analisi strumentali e modelli moderni. “Oggi non siamo ancora in grado di dire quando accadrà un evento sismico, ma possiamo conoscere le aree e ipotizzarne la magnitudo”, afferma Doglioni, “L’Ingv possiede un catalogo tra i più completi al mondo, che raccoglie una lunga serie di dati sui terremoti del passato; tutte le nostre città negli ultimi duemila anni hanno subito dei danni”: gli studiosi hanno trovato tracce di crolli anche nelle mura del Colosseo, o lesioni importanti sui campanili di Venezia. Ci sono però zone dove la pericolosità sismica è maggiore: “si tratta dell’asse della catena appenninica, la fascia pedemontana alpina e qualche zona interna delle Alpi. In termini di magnitudo, possiamo stabilire per le aree italiane a più alta pericolosità una potenza massima raggiungibile di almeno 7.5”.
Bastano queste informazioni per comprendere che è necessario diffondere una cultura del rischio sismico: “È un rischio misurabile come prodotto di tre diversi parametri: la pericolosità naturale, la vulnerabilità del territorio specifico, che è data dalla resilienza degli edifici, e l’esposizione, a cominciare dalla densità abitativa”.


DIFFONDERE LA CONSAPEVOLEZZA DEI RISCHI NATURALI

I tre parametri che misurano il rischio sismico aiutano a spiegare le conseguenze del recente terremoto di Ischia, dove una magnitudo 4 ha determinato danni notevoli. “La scossa è stata molto superficiale – osserva Doglioni – e quindi l’energia liberata al suolo è stata maggiore che non per terremoti più profondi per la forte vicinanza alla zona di rilascio; inoltre le onde sismiche si sono propagate in terreni poco consolidati, che ne hanno amplificato l’ampiezza, colpendo una zona densamente abitata e in cui erano presenti edifici altamente vulnerabili”. Un evento dalle caratteristiche comparabili, spiega l’esperto, era avvenuto a Tuscania nel 1971, quando un terremoto di magnitudo 4.4 (o secondo recenti studi 4.8) provocò 31 vittime e semi distrusse il paese. 
Ovunque, l’esposizione maggiore è data dal patrimonio edilizio. “Ci sono 15 milioni di abitazioni censite con livello di vulnerabilità piuttosto alto connesso alle tipologie costruttive”. Secondo Doglioni, si rende sempre più necessario alfabetizzare gli italiani sui diversi rischi legati al territorio per aumentare la consapevolezza e spingere i cittadini ad attuare comportamenti virtuosi. “Secondo uno studio dell’Ingv – spiega – solo il 6% degli italiani sa di vivere in un territorio sismico. La prima cosa da fare è diffondere la conoscenza dei rischi naturali, perché si adottino strategie difensive utili nel futuro: la prevenzione costa un decimo della ricostruzione, ma è un percorso che richiede decenni per essere completato. È poi necessario investire nella ricerca scientifica per aumentare la conoscenza dei fenomeni, e da qui adottare le migliori pratiche politiche, nell’interesse di tutti”.


VULCANI, FRANE E MAREMOTI  GLI ALTRI FRONTI APERTI

I rischi di catastrofe naturale in Italia sono anche altri, come le criticità idrogeologiche attestate da oltre 500 mila frane censite, e la presenza di numerosi vulcani. L’Ingv ha recentemente attivato anche una rete per il monitoraggio del rischio tsunami correlato a terremoti che interessano il Mar Mediterraneo. “Nel caso di eventi sopra una certa magnitudo siamo in grado, in tempo reale, di elaborare il dato e avvisare la Protezione Civile, che a sua volta si sta organizzando con una rete di specifica per informare le istituzioni delle zone costiere”. Uno tsunami può avere origine da un terremoto o da una frana sottomarina: “l’Italia – evidenza Doglioni – è esposta in particolare lungo le coste tirrenica e ionica, dove la tettonica è più intensa e il maggiore gradiente batimetrico può favorire il coinvolgimento di volumi di masse d’acqua imponenti”.
Particolare attenzione è richiesta dalla presenza di numerosi vulcani ancora attivi: il Vesuvio ha natura esplosiva e periodicamente si risveglia (l’ultima volta nel 1944), ma la zona che desta maggiore preoccupazione sono i Campi Flegrei, “un vulcano a tutti gli effetti, anche se privo di cono; con una grande camera magmatica in grado di generare eruzioni esplosive in cui possono essere emessi oltre 100 km cubi di materiale piroclastico a svariate centinaia di gradi di temperatura: significa la distruzione totale. Qui, oltre alla pericolosità, anche l’esposizione e la vulnerabilità sono altissime, trattandosi di aree densamente popolate. Non possiamo poi dimenticare – conclude Doglioni – l’Etna e le isole di Vulcano e Stromboli”. La storia insegna che le eruzioni hanno conseguenze devastanti, ma almeno oggi la scienza comincia a essere in grado di riconoscerne i segnali premonitori.

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