QUANDO È LA BLACK BOX A FARE CRASH

Le vetture non sono più solo carrozzeria, telaio e motore. L’elettronica di bordo e le dotazioni tecnologiche hanno conquistato un ruolo determinante. La disponibilità di specifici dispositivi consente riscontri e accertamenti, nonché successive elaborazioni dei dati. Ma, come spiega Umberto Rapetto, non mancano i rischi e le criticità

QUANDO È LA BLACK BOX A FARE CRASH
La tecnologia nelle auto ha e avrà un peso sempre maggiore. Ma i rischi di malfunzionamento dei sistemi o le azioni di pirateria informatica incombono, e possono vanificare i progressi fatti fino a ora. Secondo Umberto Rapetto, ex generale della Guardia di Finanza e cyber security advisor, “molteplici rischi si annidano nelle tecnologie automotive, e quello che può essere un valore aggiunto può trasformarsi in un elemento di fragilità”. 

I PROBLEMI LEGATI ALLA PRIVACY

Rapetto prospetta “uno scenario complesso e poliedrico”, in cui sarà indispensabile il ricorso a misure di cautela e accorgimenti che devono risultare adeguati, perché “l’enorme volume di dati trattati comporta adempimenti e restrizioni”. Emerge la necessità da un lato di adeguare costantemente criteri, parametri, metodologie, e dall’altro di considerare i possibili intrecci con le normative vigenti. Uno di questi intrecci riguarda le norme a tutela della privacy (dlgs n.196/2003 aggiornato dal dlgs 101/2018 e Gdpr). La panoramica della tipologia di dati che vengono normalmente raccolti dalle black box è molto ampia: localizzazione geografica, itinerari percorsi, tempo in cui il veicolo è rimasto fermo, e molto altro. Tutte informazioni che descrivono minuziosamente la condotta di guida dell’utente. “Ma a fronte di un ammontare sterminato di informazioni acquisite tramite la scatola nera e riguardanti direttamente la persona – evidenzia Rapetto – all’utente non viene sottoposta alcuna informativa che gli spieghi in modo puntuale la quantità di dati acquisiti dalla compagnia su di lui”. 

LA TECNOLOGIA NON È INFALLIBILE

C’è poi un altro scenario che si apre, ed è relativo ai problemi software. Rapetto cita due casi: quello di alcuni incidenti (senza vittime) avvenuti di recente negli Usa, provocati da due auto senza pilota di Waymo, (ex progetto Google driverless car), e quello di una persona deceduta in un incidente d’auto in Toscana: a seguito di un malore, l’auto su cui viaggiava uscì di strada e finì in un canale di irrigazione, ma non essendoci stato alcun urto la black box non rilevò nulla. “Quindi – osserva – determinati strumenti che riteniamo infallibili a conti fatti tali non sono”. 

CHI È IL RESPONSABILE DEL SINISTRO?

 “Per individuare le responsabilità – spiega Rapetto – per una collisione determinata da un’auto senza conducente, dobbiamo innanzitutto capire chi potremmo chiamare in causa”. L’elenco è lungo: si va dalla casa produttrice dell’auto alla software house che ha sviluppato materialmente il paramotore del veicolo; da chi ha progettato il sistema (che potrebbe anche essere un soggetto terzo) a chi ha scritto la procedura informatica, per arrivare all’autore di eventuali aggiornamenti del sistema, e persino l’ente certificatore. “Ma in primo luogo – conclude Rapetto – va chiarito chi e soprattutto come accerterà le singole responsabilità, e come potrà essere ripartito il peso percentuale alle cause dell’incidente”. 

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