BENEFIT PER LA RIPARTENZA

Il fenomeno delle prestazioni sociali destinate ai dipendenti resiste anche all’emergenza coronavirus. Dopo anni di interventi normativi, il modello appare in grado di muoversi sulle proprie gambe. E si candida per accompagnare l’evoluzione del mercato del lavoro innescata dalla pandemia

BENEFIT PER LA RIPARTENZA
Il welfare aziendale supera bene la prova del coronavirus. E pure quella di una politica che sembra aver dimenticato vantaggi e potenzialità di un fenomeno che lei stessa aveva contribuito a generare: nell’ultima legge di Stabilità, tanto per citare un caso recente, non c’è alcuna traccia di welfare aziendale.
Nelle discussioni preliminari al testo erano emerse due proposte. La prima prevedeva l’introduzione di un regime di agevolazione fiscale per l’acquisto di mezzi di micromobilità sostenibile (biciclette, monopattini…) e per l’abbonamento a servizi di sharing mobility. La seconda estendeva invece a tutto il 2021 l’innalzamento a 516,46 euro, varato con il cosiddetto decreto Agosto, della soglia di esenzione fiscale prevista per i fringe benefit, ossia benefici accessori che possono essere corrisposti al lavoratore come integrazione alla normale retribuzione. Entrambe le misure sono però sparite dal testo finale, suscitando le critiche di Aiwa, l’associazione italiana di welfare aziendale, e altri operatori del settore. Si dirà che in tempi di pandemia le priorità sono altre. E che la politica ha giustamente focalizzato la propria attenzione sulla risposta all’emergenza Covid-19. Ma chi dice che almeno parte di questa risposta non potesse arrivare anche da misure di welfare aziendale? Aiwa, a tal proposito, ha definito “abbastanza stupefacente” che, accanto a quelle che vengono giudicate “mancette”, non abbia trovato posto anche una disposizione, quella sui fringe benefit, che aveva un costo assai contenuto, non superiore ai 20 milioni di euro. E che, secondo una stima di The European House – Ambrosetti, avrebbe potuto a regime attivare consumi aggiuntivi per 2,5 miliardi di euro all’anno e generare 550 milioni di euro in benefici per le casse dello Stato in termini di maggior gettito Iva. 


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LA SPINTA DELLA NORMATIVA

E pensare che era stata proprio la politica a imprimere la spinta decisiva allo sviluppo del welfare aziendale in Italia. L’accelerazione arriva nel 2015, con la legge di Stabilità varata per l’anno successivo: tassazione agevolata sui premi di risultato con un’imposta sostitutiva del 10%, e completa detassazione dei bonus convertiti in benefit per tutti i dipendenti con reddito inferiore a 50mila euro. La strategia è chiara: introdurre un regime di agevolazione fiscale per incentivare il ricorso a strumenti di welfare aziendale.
Negli anni successivi si prosegue lungo la stessa strada. E così, fra 2016 e 2017, vengono ulteriormente potenziati gli incentivi fiscali previsti per il welfare aziendale. Vengono ampliati i limiti di importo per accedere all’agevolazione fiscale, vengono rimosse le soglie previste per la completa detassazione dei contributi destinati a sanità integrativa e previdenza complementare, viene infine allargata la platea dei potenziali beneficiari a tutti i dipendenti che dispongono di un reddito inferiore a 80mila euro. Tanti interventi normativi per spingere un fenomeno che, un tempo appannaggio unicamente di poche imprese illuminate, aveva registrato una crescita impetuosa (ma disordinata) dopo la crisi finanziaria del 2008.



UN FENOMENO MATURO

Il 2018 segna la prima battuta di arresto: dopo anni di intensa produzione legislativa, non viene varato alcun intervento di rilievo. Il grande passo, tuttavia, è già stato fatto: il welfare aziendale è ormai un fenomeno maturo, capace di camminare con le proprie gambe. La conferma arriva da un’indagine dell’Istat sulle iniziative di sostenibilità sociale e ambientale realizzate dalle imprese italiane fra 2016 e 2018, ossia negli anni di maggior impulso normativo per il settore. Stando ai risultati della ricerca, pubblicata lo scorso giugno, ben 712mila aziende (68,9%) hanno dichiarato di “essere impegnate in azioni volte a migliorare il benessere lavorativo del proprio personale”: il 68,6% ha garantito una maggiore flessibilità dell’orario lavorativo, il 65,6% ha introdotto buone prassi per lo sviluppo professionale, il 61,9% è intervenuto sulla tutela delle pari opportunità e il 59,4% ha coinvolto i dipendenti nella definizione degli obiettivi aziendali.
Non si è trattato di un exploit temporaneo. A metà dicembre, stando all’ultimo aggiornamento del ministero del Lavoro e delle politiche sociali, si contavano in Italia 14.853 contratti di secondo livello (11.194 aziendali e 3.389 territoriali): di questi, ben 8.365 (56,3%) prevedevano misure di welfare aziendale. La platea dei potenziali beneficiari si attestava poco sopra la soglia dei 2,5 milioni di lavoratori, mentre l’importo medio annuo sfiorava quota 1.500 euro.



PIÙ FORTE DEL CORONAVIRUS

Le potenzialità del welfare aziendale sono diventate immediatamente evidenti con la pandemia di coronavirus. Un instant report di Censis ed Eudaimon, pubblicato lo scorso ottobre, ha evidenziato come il primo effetto dell’emergenza sanitaria sia stato proprio il cambiamento delle condizioni lavorative. Un passaggio avvertito dal 45,9% degli intervistati. E che per il 29,3% si è tradotto in un sostanziale peggioramento. Per il 46,1%, più nello specifico, è diventato più difficile conciliare vita privata e vita professionale, con un sensibile aumento dello stress e della fatica (44,3%). 
In questo contesto, lo smart working si è rivelato un’insperata ancora di salvezza. Il confronto fra chi ha potuto sperimentare una qualche forma di lavoro a distanza (24,4%) e chi è rimasto in ufficio non sembra lasciare spazio a dubbi: il 23,5% degli smart worker ha migliorato le proprie condizioni di lavoro (contro il 7,6% di chi ha continuato a lavorare in compresenza), il 26,3% gestisce meglio fatica e stress (8,5%), il 41,6% riesce a conciliare vita privata, vita professionale e tempo libero (13,1%) e il 44% gestisce meglio le attività dei propri figli (15,1%).

RIPARTIRE CON WELFARE E BENEFIT

Posti questi numeri, è difficile pensare che si possa tornare indietro dopo l’emergenza. Censis ed Eudaimon, nelle conclusioni del loro rapporto, affermano a tal proposito che “lo smart working è destinato a restare come una componente costitutiva, soprattutto per lavoratori dirigenti e intermedi”. I luoghi di lavoro, proseguono, “saranno svuotati o, comunque, meno intasati di prima, con un salto di qualità verso l’impresa allargata o a rete”. E sarà fondamentale per gli operatori del settore “entrare nella partita delle aziende per gestire il rivoluzionario nuovo contesto”. Con l’obiettivo, concludono, di “dare a ognuno ciò di cui ha realmente bisogno”.
Stesso orientamento anche per Easy Welfare Edenred che, nel suo periodico osservatorio, ha evidenziato il contributo del welfare aziendale alla tenuta del sistema economico e sociale nei mesi peggiori della pandemia. “Il welfare aziendale si è affermato e consolidato in questi ultimi anni come imprescindibile strumento di virtuosa e sinergica valorizzazione del rapporto tra impresa, dipendenti e collettività”, ha commentato Luca Palermo, amministratore delegato della società. “Mai come in questo momento di emergenza sanitaria ed economica – ha aggiunto – il welfare aziendale risulta, ancora una volta, fondamentale per la ripresa e lo sviluppo del sistema Paese: garantisce infatti un insieme di iniziative e prestazioni connesse all’obiettivo di integrare il reddito delle famiglie, aumenta il benessere e il potere d’acquisto delle persone e migliora contemporaneamente la performance aziendale”. A prescindere dalla politica, la ripartenza passerà anche dai benefit aziendali.

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