UN ALTRO PASSO VERSO L’INCLUSIONE FEMMINILE

Nonostante anni di battaglie, le donne restano svantaggiate nell’accesso al mondo del lavoro. Qualcosa però inizia a muoversi nell’ambito della politica e della gestione aziendale. Adesso bisogna accelerare per rendere la parità di genere, prima ancora che una questione lessicale, un elemento costitutivo della nostra società

UN ALTRO PASSO VERSO L’INCLUSIONE FEMMINILE
Le donne sono circa il 51% della popolazione italiana. È questa la prima, fondamentale ragione per cui è importante la loro inclusione nel mondo del lavoro. È un fatto brutalmente economico, che solo dopo diventa un’istanza sociale: escludere la metà delle risorse intellettuali e produttive di un Paese significa dimezzarne le potenzialità. Ma quali sono i modi e i modelli più corretti per questa inclusione?
Mi concedo un ricordo personale. Circa vent’anni fa ero una giovane account di un’agenzia di comunicazione e il mio maggior cliente era un importante gruppo nazionale. Il mio interlocutore era una dirigente sulla quarantina: una donna competente e decisa, che da sola prendeva scelte assolutamente strategiche. Un giorno eravamo in viaggio insieme, di ritorno da una trasferta. Squilla il suo telefono, risponde concitata: è il marito, e c’è qualche questione da sbrigare. Chiama un’altra persona (la governante, intuisco), tutto a posto: avverte e chiude. Forse cogliendo il mio imbarazzo, si volta verso di me e mi dice: “sai qual è l’unico modo per cui una donna possa fare carriera?”. Rimango in silenzio. “Guadagnare tanto, così ti puoi permettere di pagare qualcuno che a casa faccia tutto. E tu – sentenzia – non sei costretta a rinunciare a niente”.

L’IMPORTANZA DI ESSERCI

Anni di battaglie per la liberazione femminile sfumati così. Il messaggio è chiaro e lampante: una donna può fare tutta la carriera che vuole, ma l’onere della gestione domestica resta suo. E se non lo può fare di persona, paghi (lei!) qualcuno che lo faccia al posto suo.
Fortunatamente tante cose sono cambiate: sono molti gli esempi di uomini che cedono il passo alla compagna davanti al suo successo politico o professionale. Sono modelli importanti, riferimenti che mostrano, soprattutto alle giovani generazioni, quanto in alto una ragazza possa ambire. E qui, credo, sta la seconda ragione dell’importanza che le donne abbiano spazio all’interno e visibilità all’esterno delle organizzazioni aziendali. La ceo di una grande azienda è un emblema, al pari della vice presidente degli Stati Uniti o della presidente del Senato, ossia la seconda carica della Repubblica italiana. Non contano tanto le loro specifiche convinzioni, quanto il fatto che ci siano: indubitabilmente donne, con la loro storia e il loro percorso, che rivestono ruoli primari. La loro presenza significa che una donna può assumere quel ruolo, rendendo consueto e fuori discussione che possa accedere ai più alti incarichi.

COME VIVONO LE DONNE IN AZIENDA?

Qui sollevo però un punto di attenzione: al mondo siamo tanti, uomini e donne, tutti dobbiamo avere gli stessi diritti e le stesse possibilità. Ma non tutti possiamo diventare direttore generale di una multinazionale o presidente della Commissione europea. Troppo spesso le discussioni sull’empowerment femminile si focalizzano esclusivamente sull’accesso a ruoli apicali, tralasciando la stragrande maggioranza di persone (anche uomini) che non ci accederà mai, per caso o per scelta. Spesso misuriamo il grado di inclusività di un’azienda calcolando la quota femminile fra i dirigenti o in consiglio d’amministrazione. È corretto, ma credo che non ci si possa fermare qui. Penso sia molto più significativo capire quanto pesa e com’è distribuita la presenza femminile nell’organizzazione, e ancora di più capire come stanno le donne in azienda.
Sapere se le donne avvertono pressioni inconciliabili, o se sentono di potersi esprimere liberamente, è di certo meno misurabile e più opinabile. Ma è forse l’unico modo per capire davvero quanto un’azienda (soggetto sociale) stia esercitando una funzione di disseminazione culturale, intervenendo concretamente sulla vita di quella fetta di popolazione che sono i suoi dipendenti. 

L’ESPERIENZA DI SORGENIA

Mi fa piacere qui citare il caso della mia azienda, Sorgenia: un’azienda tutto sommato di dimensioni contenute (circa 300 dipendenti) in un settore di colossi come quello energetico, eppure all’avanguardia in molti ambiti. Siamo indubbiamente un’azienda di persone più che di processi, dove a contare sono le relazioni, le occasioni di formazione per tutti, la possibilità di esprimersi apertamente. Su questo humus è cresciuta una cultura dell’inclusione e dell’integrazione che riguarda i mille modi in cui ciascuno è, sente o esprime se stesso.
Da vari anni Sorgenia è certificata Great place to work. Dal 2020 siamo anche Best workplace for women, grazie alle valutazioni delle colleghe che hanno indicato dimensioni come la credibilità del management e il rispetto avvertito nei loro confronti, l’equità percepita nel trattamento, il forte senso di coesione e l’orgoglio nell’appartenenza al gruppo aziendale. Io mi sento molto più rassicurata da questi parametri piuttosto che dalla percentuale di donne sul totale degli assunti (35%) o da quella delle donne con incarichi manageriali (sempre 35%, fra quadri e dirigenti).

UN DILEMMA LESSICALE

Virare dal piano quantitativo a quello relazionale porta inevitabilmente al centro dell’attenzione comportamenti e parole. Si è da poco conclusa la grande kermesse del Festival di Sanremo, spesso una lente sui fenomeni di costume che attraversano il nostro Paese. Due episodi mi sembrano degni di nota. Una è la polemica sul titolo più opportuno per una donna che dirige l’orchestra: direttrice, chiedono in molti pensando al valore esemplare, o direttore d’orchestra, ribatte l’interessata citando la definizione del ruolo.
Entrambi i punti di vista sono legittimi, non credo che le certezze dogmatiche siano d’aiuto. L’italiano è una lingua neolatina, ed è priva di genere neutro. Certo, l’evoluzione della lingua non è scevra dalle influenze culturali nell’uso della lingua stessa, nemmeno l’Accademia della Crusca è riuscita a dirimere la questione dal punto di vista esclusivamente grammaticale. 

PAROLE E FORMULE INCLUSIVE

Ma pensando a professioni meno dibattute, come si fa a capire se chi conduce un mezzo pubblico è un uomo o una donna? Chiedendo forse se un’autista va scritto con apostrofo o senza? Dilemma inutile, perché a portarci in stazione serve un mezzo efficiente e puntuale, ed è abbastanza indifferente che a guidarlo sia un lui o una lei. Insomma, se le parole rappresentano il mondo per come è o per come ce lo immaginiamo, da una visione chiara e inclusiva scaturiranno naturalmente parole e formule inclusive, che a volte potranno anche non curarsi del genere grammaticale.
E chiudo allora con il secondo episodio sanremese: giovani cantanti (uomini e donne) che si scambiano mazzi di fiori sul palco. “Stasera tocca a lui, facciamo una sera ciascuno”. Una galanteria polverosa trasformata in un semplice gesto di gentilezza reciproca. Mi è piaciuto. Perché la parità fra generi è una strada a due vie: c’è chi deve poter andare dove le è sempre stato negato, e chi ricevere le attenzioni che gli sono sempre state precluse.

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