PORTABILITA': OPPORTUNITA' O MINACCIA?

Il cambiamento di approccio verso le possibilità di scelta da offrire ai lavoratori e la capacità di rendere più concorrenziali i fondi, anche attraverso maggiori possibilità di aggregazione, sono fattori vincenti per lo sviluppo della previdenza complementare nel nostro Paese

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Prima di essere stralciata a fine luglio dal ddl Concorrenza, in vista di un riesame di tutta la materia, la previsione della libertà di trasferire la posizione individuale di un iscritto a un fondo pensione ad altra forma previdenziale, con continuità del contributo datoriale, aveva sollevato molte critiche. 

Le critiche erano giuste perché la portabilità, così come prevista:
- sarebbe andata a incidere indebitamente su scelte compiute dalle Parti sociali, in sede di contrattazione collettiva, con potenziale effetto ulteriormente destabilizzante per i fondi, e da noi assai poco investitori stabili di lungo periodo, a causa di una normativa che troppo spesso li riduce a un bancomat; 
- avrebbe rappresentato l’ennesimo intervento nel settore di carattere estemporaneo, privo cioè di una visione e di una valutazione di impatto sistemico. 

Gli argomenti di cui sopra sono solidi e condivisibili, ma da vecchio tecnico del settore, vorrei provare a condurre un ragionamento diverso, assumendo che la totale libertà di portability, contributo datoriale compreso, possa ridursi alla stregua di una tigre di carta. 

Due sono i problemi chiave della previdenza complementare in Italia: 
1. il modesto tasso di adesione ai fondi negoziali, specialmente per settori a bassa sindacalizzazione e con strutture produttive parcellizzate; 
2. la dimensione troppo spesso lilipuzziana dei fondi. 

La prima questione è ovviabile, a normativa di legge invariata, disponendo la veicolazione della volontà individuale dei lavoratori ai fondi di riferimento attraverso il contratto collettivo, fatta salva la facoltà di dissenso espresso da parte di ciascun interessato. 

Non essendo del tutto Biancaneve, mi rendo conto che cosa significherebbe la proposta di cui sopra per la miriade di piccole aziende che sono il tessuto connettivo del Paese, in termini di crescita dell’ammontare dell’apporto contributivo ai fondi e di emorragia di quote di Tfr (le aziende sotto i 50 addetti ce l’hanno ancora in pancia e non presso il Fondo di tesoreria). Non è un caso che un’intesa similare è intervenuta, sinora, solo nel settore edile, dove le imprese non detengono il Tfr.  Usciamo, però, una volta per tutte dall’equivoco: se si crede veramente nello strumento della contrattazione collettiva, nell’esigenza della previdenza complementare e nella concreta possibilità che essa, unitamente all’assistenza sanitaria privata, divenga strumento retributivo principe del prossimo futuro, le parti sociali, datoriali in primis, debbono trarne le conseguenze. Ciò, a maggior ragione, se la contrattazione collettiva del prossimo futuro sarà connotata da una crescente prossimità, a fronte di un ruolo delle strutture nazionali di determinazione di un quadro generale.


Verso un maggiore principio di mutualità
 
Quanto alla dimensione dei fondi, ove le parti sociali, in questo caso sindacali in primis, sappiano rinunciare a un esasperato presenzialismo nei consigli di amministrazione, magari aiutati dalla Vigilanza, che cominci a fissare qualche soglia dimensionale minima per le diverse tipologie di fondi, le aggregazioni di forme operanti in regime tecnico di contribuzione definita sono realizzabili senza problema alcuno. 
Fondi grandi, ben gestiti, con costi ragionevoli e trasparenti, capaci costantemente di dialogare con il proprio bacino di utenza sarebbero in grado di affrontare senza timore la portabilità, valutandola quale dovrebbe essere: un corretto stimolo alla concorrenza, cioè a far sempre meglio per i propri iscritti. Per i quali, colgo l’occasione per sottolinearlo, sarebbe alfine ora di recuperare anche qualche profilo di mutualità, troppo a lungo dimenticato e certo non vietato dalla legge.

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